Vinitaly di Verona: il Salone lancia un appello contro la guerra commerciale con gli Stati Uniti

Vinitaly di Verona: il Salone lancia un appello contro la guerra commerciale con gli Stati Uniti

L’inaugurazione della “più grande fiera del vino italiano al mondo” ha radunato un’imponente schiera di figure istituzionali: quattro ministri, tre presidenti di Regione e una vicepresidente dell’Europarlamento. Incredibile a pensarci, si sono riuniti a Verona per celebrare la 57esima edizione di Vinitaly, un evento che si vanta di rappresentare l’eccellenza del Made in Italy con uno sguardo già rivolto, a quanto pare, ai mercati emergenti come India e Kazakistan. Qui, nel cuore dell’Italia, è curioso notare come la promozione di un settore vitale arrivi con un “lungo roadshow all’estero”, quasi a suggerire che l’attenzione internazionale sia l’unica salvezza per la nostra industria vinicola.

Numeri e Promesse

Secondo il presidente di Veronafiere, Federico Bricolo, “Vinitaly è la fiera più importante al mondo per il vino italiano”, un’affermazione che, sebbene possa suonare trionfante, manca di una contestualizzazione critica. Come può essere “la più importante” quando, contemporaneamente, si discute delle problematiche dei dazi commerciali? La retorica di un settore che vale 45 miliardi di euro e impiega un milione di persone è chiaramente attraente; tuttavia, è lecito chiedersi: quale visione concreta esiste realmente per superare le sfide globali piuttosto che limitarsi a festeggiare gli straordinari risultati del passato?

Con 4.000 cantine e 30.000 buyer presenti, di cui 3.000 provenienti dagli Stati Uniti, i numeri sembrano promettenti. Ma scendendo nei dettagli, il Comité Européen des Entreprises Vins riporta un’exportazione pari a 8 miliardi di euro, una crescita che, sì, fa ben sperare, ma che deve confrontarsi con un import pari a 1,3 miliardi di euro. Dove sono i frutti di questa eccellenza tanto decantata se importiamo altrettanto?

Il Futuro e la Realtà

Le dichiarazioni di Matteo Zoppas dell’Istituto per il commercio con l’estero, sulla necessità di “accelerare il progetto dei road show di Vinitaly in Asia e Sudamerica”, suonano quasi come una ricerca di scuse, piuttosto che come un piano robusto. Solitamente ci chiediamo, dopo tanti anni, se le promesse non rimangono chiuse in cassetti polverosi, là dove riposano anche gli ambiziosi progetti di espansione. L’ottimo incremento del vino italiano nei Balcani è un esempio chiaro: un aumento del 50% in tre anni. Ma come mai non si misura altrettanto successo altrove? È un vero successo, o solo un’eco di campagne isolate?

A fronte di queste contraddizioni, emergono domande essenziali: come possiamo tradurre pezzi di carta e dati statutari in risultati tangibili e sostenibili?

Soluzioni Possibili

Dunque, ci sono soluzioni? Una riflessione interessante potrebbe riguardare l’importanza di investire non solo nel marketing, ma anche in **strategiche collaborazioni** internazionali, che superino le semplici fiere. Mettere in relazione i produttori con i consumatori finali può portare a risultati tangibili, invece di celebrare il nostro “Made in Italy” in loop. La questione dazi va affrontata non con l’audace ottimismo di un evento come Vinitaly, ma con politiche commerciali ben delineate e accordi in grado di garantirne la sostenibilità nel lungo termine. Forse è tempo di smettere di presentare il vino italiano come unico protagonista su un palcoscenico folcloristico e cominciare a considerarlo in un contesto globale: complesso, sfidante ma, potenzialmente, enorme.Il Ministro dello Sviluppo Economico Adolfo Urso ha sottolineato con convinzione che, in tempi di crisi, l’Italia sappia resistere e crescere più degli altri. Davvero? È un’affermazione che fa riflettere, considerando che la crescita delle esportazioni italiane post-pandemia è stata poi esposta a una buona dose di ottimismo. Ma si deve sempre considerare se tale affermazione resista all’esame della realtà. Per contrastare una presunta “guerra commerciale” con gli Stati Uniti, Urso esorta a un approccio razionale, ma non sarebbe meglio definire questa razionalità un po’ prima, per non trovarsi a dover reagire “di pancia”?

Il Dilemma della Cooperazione

A rincarare la dose, Luca Zaia avverte contro la contrapposizione frontale: “Non possiamo dichiarare guerra agli Stati Uniti.” In effetti, il linguaggio sembra restare all’opposizione del riscontro pratico. Da un lato si invoca la cooperazione, dall’altro si scricchiola il fragile tavolo delle relazioni internazionali. E ci si chiede: come si concilia la retorica con le azioni concrete che potrebbero avvicinare o allontanare le due nazioni?

Un Regalo? Davvero?

Il ministro Francesco Lollobrigida ha affermato che il nostro sistema alimentare è un dono per gli americani, e che la nostra cultura del benessere offre un modello di vita da cui dovrebbero trarre ispirazione. Ma al di là di questa romantica visione, come possiamo ignorare che il confronto tra stili di vita e speranza di vita non è così semplice? Vivere sette o otto anni in meno non è esattamente un “regalo” da offrire.

In questo scambio di osservazioni, Lollobrigida sottolinea che le esportazioni verso gli Stati Uniti costituiscono circa il 10% del totale. Peccato che questa percentuale sembri quasi un riflesso di una situazione stagnante piuttosto che di un vero slancio verso il futuro. La percezione di “amicizia” tra i due paesi va oltre la pura retorica, ma come trasmettere questo messaggio se i fatti rimangono in sordina?

Il Futuro Sottile

Quindi, dove ci porta tutto ciò? Promesse di crescita e amicizia si scontrano con la realtà di una diplomazia fragile e di scambi commerciali disattesi. Non potrebbe essere utile avvalersi della lungimiranza di paesi che hanno saputo intraprendere politiche più efficaci, piuttosto che continuare con affermazioni G8 nel contesto di problematiche vigenti?

In passato si sono fatte molte promesse: il piano per stimolare le esportazioni, le strategie per attrarre investimenti, eppure, qui siamo, a raccogliere parole più che risultati.

Possibili Soluzioni

Quindi, quali potrebbero essere le soluzioni? Potremmo considerare di investire nella cooperazione reale piuttosto che in slogan, o magari riflettere su modelli economici esteri come quelli scandinavi che hanno saputo integrare bene crescita e sostenibilità. Oppure, perché non riscoprire un po’ di sana autonomia, evitando di dipendere da partner esterni per imparare a vivere?

In un contesto così carico di promesse disattese, la vera sfida è stabilire un dialogo non solo verbale, ma anche concreto. Le parole, alla fine, non riempiono i piatti, né rafforzano le relazioni.

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