«Se ci siamo noi, non ci sono loro». Un forte richiamo all’azione, chiaro e diretto, che non fa mistero della sua intenzione di escludere l’altro, l’indesiderato. Si parla di una manifestazione che si terrà sabato alle 16 in piazza Cittadella, con il messaggio rassicurante e paternalistico di «rioccupare il territorio». Dietro questa retorica, di chiara impronta reazionaria, si cela una mobilitazione che si proclama in nome di valori come «per i nostri figli, per la nostra gente, per noi stessi», ma rimane un mistero chi esattamente possa essere considerato parte di «noi» e chi invece faccia parte di «loro». La minaccia contro il cosiddetto «maranza» — termine vagamente ominoso per descrivere una gioventù definita problematicatica — appare come il nemico pubblico che giustifica ogni azione, ma chi sono realmente questi “maranza”? Un facile capro espiatorio per problemi che sicuramente sono molto più complessi e profondi.
Un’appello a un’unità ambiguo
Secondo Riccardo Zanini, responsabile di Lotta Studentesca, quella di sabato non sarebbe una manifestazione politica, bensì «una battaglia senza bandiere» e «senza età». Questa affermazione suscita qualche dubbio. Come si può coinvolgere la gioventù di Verona in una mobilitazione che, di fatto, nasce da un’ideologia politica molto chiara? Sicuramente l’idea di cavalcare le paure sociali non è nuova, ma la vera domanda è: è possibile realmente creare un’unità senza una agenda? E, di quell’unità, a chi giova realmente?
Rovine e opportunità del passato
Basti pensare a precedenti manifestazioni come «Verona ai veronesi» e «Verona per la libertà», le quali sembrano più che altro tentativi di inseguire fantasmi. La storia sembra ripetersi, e le promesse di sicurezza sembrano svanire in un vuoto di contenuti. Adesso il progetto di ridare voce a giovani di Verona si fa tramite una sorta di rioccupazione del suolo pubblico, ma chi può garantire che non si ripetano scene di violenza, come quelle che le stesse manifestazioni pretenderanno di combattere? Perché, alla fine, l’impressione è che questioni ben più serie vengano ridotte a slogan accattivanti.
Strumentalizzare la paura
A quel punto, l’enfasi su «Emargina i maranza» suona più come un tentativo di mobilitare la paura della gente, piuttosto che di offrire soluzioni. Un approccio che spesso risuona con gli stessi toni di ideologie passate, generando una contraddizione evidente: si parla di unità, ma si minaccia l’emarginazione. Qui sorge un altro interrogativo: in che modo questo non si traduce in un perpetuo ciclo di esclusione e conflitto? E, perché no, ci saremmo mai potuti aspettare qualcosa di diverso?
Possibili soluzioni? Un gioco di parole
Il paradosso è che, mentre si invocano soluzioni radicali per il «pericolo maranza», ci si dimentica che il vero problema richiederebbe un’analisi più profonda delle cause sociali e dei conflitti generazionali. Forse la risposta non si troverebbe in facili slogan o in azioni dimostrative, ma in un vero e proprio dialogo comunitario e nell’affrontare le questioni di inclusione che da anni vengono ignorate. Ma in un clima politico come quello di oggi, dove le parole sembrano spesso non corrispondere alle azioni, chi davvero scommetterebbe su un cambiamento concreto?»
In conclusione, se a Verona si vuole veramente vedere un cambiamento, non basterà mobilitare le piazze contro entità astratte. Sarà fondamentale entrare nei dilemmi reali che i giovani affrontano quotidianamente. E qui, l’ironia è che tutti questi slogan «per noi» e «contro di loro» potrebbero facilmente tramutarsi in un eco vuoto, una mera rappresentazione teatrale, mentre il pubblico continua a cercare autentici protagonismi e non solo spettacolari antagonismi.
In una società in cui il degrado e la violenza sembrano ali invincibili, il commento dell’ex consigliere regionale Andrea Bassi, noto per la sua militanza nella Lega e in Verona Domani, si presenta come un richiamo quasi drammatico all’azione morale dei cittadini: “Siamo stufi di stare a guardare”. Ma chi sta davvero guardando, e quanto è pronto a vedere? La risposta allarmata della sezione Verona centro dell’Anpi fa eco a una dinamica più complessa.
Repressione vs. Comprensione
L’Anpi ribadisce un concetto fondamentale: la risposta a fenomeni di marginalizzazione e disagio giovanile non può limitarsi all’approccio repressivo e violento — spesso strumento di sfogo delle pulsioni razziste e xenofobe dell’estrema destra. Quella violenza, carica di propaganda, sembra quasi dimenticare che il vero pericolo per la comunità è rappresentato dall’estremismo nero, che ha avvelenato il tessuto sociale per decenni. Non è ironico che in un contesto dove si grida “basta violenza” ci si dimentichi un problema che, come una lame invisibile, continua a incidere profondamente sulla popolazione?
Cosa significa “spezzare il filo”?
Inoltre, la narrazione da parte di Verona di voler spezzare il ‘filo nero’ che storicamente ha intriso la città si scontra con la realtà. Le parole scorrono ricche di retorica e l’eco del sangue di persone come Nicola Tommasoli risuona ovunque. E mentre si annunciano manifestazioni come quella di sabato in piazza Cittadella, una domanda aleggia: che seguito avrà il tentativo di emarginare il “maranza”? Siamo di fronte a una vera lotta contro l’odio o a un’ennesima corsa per le votazioni?
Possibili soluzioni o illusioni?
Le parole di Bassi e le reazioni dell’Anpi sollevano interrogativi su quale sia la vera risposta a problematiche che affliggono la società. Proposte concrete appaiono come pallide ombre di buone intenzioni mai messe in atto. Ma cosa significa realmente lottare contro la violenza? Mobilitare le persone, certo, ma questo implica un invito a un impegno comune, non un diktat trasversale di repressione camuffato da moralità. Come possiamo credere che la scelta di ignorare l’estremismo nero favorisca la coesione sociale?
In conclusione, mentre si formulano piani e si loda la resistenza a certe ideologie, un pizzico di ironia è d’obbligo. Cosa ci vorrà, un miracolo o un vero cambiamento di atteggiamento, per trasformare questa spirale di parole vuote in azioni concrete e responsabili? Potrebbe essere il momento di una riflessione profonda su quale tipo di società vogliamo realmente costruire: una in cui si parla di giustizia per poi voltarsi dall’altra parte o una in cui la solidarietà non è solo un bel motto, ma una pratica quotidiana?