«Era dubbioso su quell’operazione in cui era stato ucciso. Doveva essere l’ultima. Ma poi non so perché è andato lo stesso». Su queste parole profonde e riflessive ci si potrebbe scrivere un saggio. Chi non è mai stato tentato di andare a combattere in un conflitto estremo pur essendo consapevole dei rischi? Sono decisioni che tutti prendono… giusto?
A raccontare di Manuel Mameli al Corriere, al telefono, è un altro volontario italiano, nome in codice «Mike», tornato a casa con qualche livido assieme a un terzo italiano, che si fa chiamare «Alexander». Entrambi, sul fronte Est vicino a Pokrovsk, erano ovviamente nella Legione internazionale. Naturalmente, come da film d’azione, «Alexander» e «Mike» erano in una squadra di ricognizione, mentre il caro Manuel si era unito al team di assalto, perché, perché no? Tre eroici giovani contro un intero esercito russo, tutto mentre i veri soldati stanno comodamente seduti a casa. Ma non preoccupatevi, il dramma continua!
Ci si chiede: perché mai Manuel non volesse andare a combattere? In realtà, le cose non sono mai così semplici. «So che inizialmente si era rifiutato. Non voleva fare la missione. Poi, chissà cosa è successo» racconta «Mike». Che sorprendentemente non sembra avere le risposte a domande che chiunque si porrebbe. Il dramma della disillusione, si potrebbe dire.
«Ci eravamo salutati con un messaggio in cui mi diceva: “No, non vado, è troppo rischioso”. Non so che cosa gli abbia fatto cambiare idea» continua «Mike». Perché le decisioni di vita e di morte di ogni singolo soldato, ovviamente, non sono influenzate da dinamiche più ampie o da pressioni sociali. Andare in guerra deve essere una sorta di hobby per qualche fantasioso.
Ma passiamo a dare un’occhiata alla magnanimità di questa epica avventura. «Eravamo a Novo Poltavka, vicino a Pokrovsk, in direzione Donetsk. Lì i russi hanno mandato una quantità di truppe che non potete immaginare». Quattro diverse brigate e due meccanizzate contro… chi, esattamente? La Legione internazionale e una brigata della Marina ucraina. Come se questi ragazzi avessero una chance più che ridotta con un numero simile di avversari. Che meraviglia!
Manuel e la sua schiera di coraggiosi si trovavano «vicino a una linea di alberi lunga quasi un chilometro, a 40 metri di distanza» dal nemico. Grande strategia, se non fosse che 40 metri sono pura follia in un contesto di guerra. Ma cosa importa della logica quando si è in cerca di avventure? Pensate a tutta la gloria che emana solo dall’essere lì, in quel momento!
Oh, la meravigliosa realpolitik di chi non può fare a meno di raccontare guerre come fiabe. Anzi, eccone un’altra: la storia di un soldato, il Manuel, ammazzato nel bel mezzo di un campo di battaglia. E com’è che ci ha lasciati? Ah, sì, “attaccato” mentre si trova tra gli alberi. Un’immagine poetica, non credete?
Ma torniamo alla nostra entusiasta equipe di amici in guerra. “Eravate amici, vi conoscevate bene?” chiede il giornalista. E certo, perché chi non andrebbe in Ucraina per fare amicizia in questi tempi gloriosi? Sentite questa bellezza: “Ci aveva raccontato della sua famiglia… del fatto che aveva il padre e i cugini militari.” Che storia commovente! Come se andare in guerra sia un modo per riscoprire i legami familiari…
Proseguendo, scopriamo che chi scrive è stato il primo a dare la triste notizia alla famiglia di Manuel. Perché non c’è niente di meglio che essere il “portatore di cattive notizie” in una situazione già drammatica. “Mi hanno contattato subito”, dice. Gigantesco, davvero! Che comunicazione! Un vero e proprio servizio clienti, direi.
Ah, ma non finisce qui! “Tu e Alexander siete rimasti feriti?” Il colpo di scena: “Sì, io ho una scheggia nel gluteo e un’altra infilata dietro il ginocchio.” Già, perché chi non sogna di collezionare schegge in giro per il corpo? E per Alexander? Beh, lui ha “il braccio rotto da uno scoppio di granata”. Chissà, magari un compleanno in anticipo con tanto di festeggiamenti in ospedale!
Curiosamente, entrambi sono all’ospedale, come due moderati turisti dello sfortunato tour di guerra. E che dire, Alexander sarà “trasferito altrove perché è un poco più grave di me”. Un dettaglio che fa sembrare il tutto un gioco di privilegio tra feriti. Che meraviglia, eh!
In un contesto in cui ci si aspetta di sentire da chi sta sul campo che magari le cose possano migliorare, ci troviamo a parlare di ferite come se fossero belli souvenir da portare a casa. Ah, la bellezza della guerra moderna!


