Trump finalmente convinto: l’Iran sarebbe il pacifista tanto atteso, chi l’avrebbe mai detto?

Trump finalmente convinto: l’Iran sarebbe il pacifista tanto atteso, chi l’avrebbe mai detto?

Appena uscito dalla Situation Room, senza nemmeno perdere tempo, Donald Trump si è lanciato in una delle sue perle su Truth Social, naturalmente con il solito maiuscolo che fa tanto autorevolezza: «CONGRATULAZIONI MONDO, È TEMPO DI PACE». Da applausi. Nel suo messaggio, un ringraziamento, fresco e sentito, all’“altamente rispettato” emiro del Qatar, la gioia incontenibile per il fatto che nessun americano o qatariota abbia perso la vita, e una tirata d’orecchie all’“insipida” risposta iraniana. Ovviamente, non poteva mancare la sua versione regalo-di-Natale: «Forse ora l’Iran potrà procedere verso Pace e Armonia nella regione, e con entusiasmo incoraggerò Israele a fare lo stesso». Tradotto? L’autocandidatura definitiva al Nobel per la Pace. Obiettivo fissato da anni, perché pare che lo scambio di premi sia una questione di conti in sospeso con l’odiato Obama.

Il resto? Ovviamente, l’intramontabile repertorio di insulti ai “fetenti” giornalisti, elencati con precisione chirurgica. Ma dai, cosa vi aspettavate? E sul famigerato “regime change”? Beh, Trump non ha mai davvero abbandonato questa carta, anche se oggi sembra più un’idea da concerto rock che una strategia reale. Let’s be honest, l’entusiasta Reza Pahlavi, che si è autoproclamato re senza nemmeno un’esercito a portata di mano, rende il tutto ancora più comico.

Ieri notte, durante l’attacco a Doha seguito con fervore in diretta tv, per una volta Trump ha scelto di lasciare il telefono da parte e di rifugiarsi nella sua amata Situation Room. Nel frattempo, la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, aveva già spiegato la posizione trumpiana con la delicatezza di un elefante in cristalleria: il presidente “crede che il popolo iraniano possa controllare il proprio destino”. Naturalmente, con quel tocco di diplomazia che tutti ci aspettavamo.

Karoline Leavitt ha dichiarato a Fox and Friends, lo show televisivo dal titolo rassicurante, che «La nostra posizione non è cambiata. Se il regime si rifiuta di giungere a una soluzione pacifica e diplomatica — cosa a cui il presidente è ancora interessato e impegnato, ovviamente — perché il popolo iraniano non dovrebbe liberarsi di questo governo terribile e violento che li opprime da decenni?»

Traduzione semplice: se l’Iran non si comporta da bravo bambino, allora noi speriamo che lo rovescino dall’interno. Ma senza dare fastidio, eh, perché non vogliamo mettere le mani direttamente in pasticcio. Giusto un cambio di governo “voluto dagli iraniani”, perché chi meglio di loro può desiderare di finire nel caos totale? Un’idea davvero innovativa per una superpotenza che ha sempre adorato decidere col pugno di ferro come e quando intervenire.

La Situazione e il Buonsenso (o la sua mancanza)

Insomma, Trump sembra volerci far credere di essere il grande mediatore della pace, l’uomo che vuole il dialogo e la diplomazia, mentre continua a infierire con tweet da stadio e a sperare in un “regime change” che ormai appare più come una fantasmagorica utopia. La realtà, però, è che tutta questa armonia promessa suonerà probabilmente come un’altra delle sue sparate, pronte a dissolveersi nel nulla appena l’eco delle sue parole svanirà.

D’altra parte, spingere Israele a fare altrettanto sembra il classico “mandiamoli a fare la pace, tanto poi vediamo come va”: un modo elegante per scaricare le proprie responsabilità e fingersi pacifisti da tastiera. Se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che i miracoli nella regione mediorientale si vedono proprio una volta ogni… beh, non esageriamo.

Quindi, mentre il mondo si affanna a capire come si evolverà questa crisi, la posizione trumpiana a stelle e strisce rimane quella di sempre: parole roboanti alternate a azioni minime. Ma che importa, basta che ci siano i titoli e qualche insulto per tenere alta la bandiera della “Forza e Pace” made in America.

Ma guarda un po’, la «posizione militare» di Washington non si smuove di un millimetro. Sì, gli “attacchi di precisione” lanciati sabato notte sono stati un successo, parola loro. Nel frattempo, il presidente di turno si diverte a giocare con la domanda «legittima» che tutti si porranno: è un cambio di regime oppure no? Una domanda così complessa e delicata che si risolve con un semplice giochino retorico.

Naturalmente, i famigerati «boots on the ground», quei calzari militari tanto cari a George W. Bush durante le sue avventure in Asia centrale e Medio Oriente, sono ancora tossicemente evitati, declinati e allontanati da ogni dichiarazione. Un balletto verbale che, per carità, trasferisce la palla del cambiamento di governo agli iraniani – oh, il popolo deve fare la sua parte! – mentre Washington si limita a fare il tifo sulle tribune.

Ecco che torna così a galla quel fantastico “zigzagare” di Trump sul tema del regime change iraniano: da un lato, i sondaggi da decenni indicano che l’americano medio non vuole un’altra guerra in quella caotica regione; dall’altro, non sopporta per nulla l’idea di un Iran atomico. Quindi, cosa si fa? Un po’ di tutto, ma senza mai esporsi troppo.

Ricordiamo il 2018, quando l’allora presidente decise di ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dal Piano d’azione congiunto globale (JCPOA), ovvero l’accordo sul nucleare iraniano voluto e firmato da Obama. Di quel “patto di pace” non rimase che l’eco mentre le sanzioni tornavano più pesanti che mai. Non era un cambio di regime – dicevano –, ma un “rammarico” per mettere sotto pressione la leadership iraniana. Chiarissimo.

E nel 2020 ci fu l’iconica eliminazione via drone del generale iraniano Qassem Soleimani, un’escalation memorabile ma, sempre secondo la narrativa ufficiale, solo un “deterrente” e una reazione alle minacce contro il personale americano. Insomma, un’azione preventiva che definire “guerra” è un po’ troppo cinematografico.

La nuova puntata firmata Trump II inizia però proprio con una lettera (sì, una lettera!) inviata alla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei. Proposta? Riprendere i negoziati per un nuovo accordo nucleare, con un romantico countdown di 60 giorni. Si chiama diplomazia, ragazzi. Tutto il resto è solo cronaca dell’ultimo weekend di fuoco.

Il weekend degli attacchi americani? Sabato notte, i bersagli erano Fordo, Natanz e Isfahan. Domenica, invece, l’ormai mitico tweet di Trump – perché per chiudere una crisi internazionale non si può che affidarsi ai social – con un messaggio più ambiguo di un enigma da crittografia:

«Non è politicamente corretto usare il termine “cambio di regime”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di RENDERE L’IRAN DI NUOVO GRANDE, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime??? MIGA»

Non è uno scherzo, MIGA starebbe per “Make Iran Great Again”. Che originalità, eh? Praticamente la sceneggiatura perfetta di un revival presidenziale che prende a prestito slogan da un passato neanche troppo lontano. Chi ha detto che la politica estera deve essere seria?

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