Viene chiamata ironicamente “Il Detroit d’Europa”: un paese montano di appena 5,4 milioni d’anime che è riuscito ad accaparrarsi giganti come Volkswagen, Stellantis, Kia e Jaguar Land Rover. Per non farsi mancare niente, anche la svedese Volvo Cars ha deciso di aprire una fabbrica di veicoli elettrici vicino a Kosice, nella parte orientale, rappresentando il quinto stabilimento di produzione nel paese.
Il dominio di questo miniparadiso automobilistico si traduce in numeri da capogiro: il settore contribuisce all’11% del PIL nazionale, è responsabile della metà della produzione industriale e dà lavoro a circa un decimo degli occupati. Ma, tranquilli, niente è perfetto.
Anzi, per chi si illudeva che tutto sarebbe filato liscio, arrivano a minacciare questo miracoloso equilibrio diversi fattori. Da tariffe statunitensi degne di un film d’azione, a una concorrenza cinese che cresce come un male oscuro, passando per tasse interne ben più salate e un brusco cambio di rotta geopolitico che potrebbe spingere la Slovacchia lontano dall’ancora protettiva Unione Europea. Tutto sembra congiurare contro questo piccolo colosso dell’auto.
Matej Hornak, l’analista della principale banca slovacca, Slovenská Sporiteľňa, non ha dubbi: il settore automobilistico slovacco è il più bersagliato dai dazi imposti dall’era Trump, soprattutto rispetto ad altri paesi dell’Europa centrale e orientale.
Il motivo? I mancati introiti degli Stati Uniti costituiscono un bel 4% delle esportazioni totali del paese, con circa l’80% di questi volumi rappresentati da automobili. Insomma, quando gli americani si arrabbiano con i dazi, la Slovacchia sente un po’ più forte il colpo.
Zuzana Pelakova, direttrice del programma economia e business di Globsec, un think tank basato proprio a Bratislava, individua senza mezzi termini il problema principale a breve termine: proprio quei fantomatici dazi américani.
Zuzana Pelakova said:
“Il rischio immediato, più rilevante della transizione verso i veicoli elettrici e di tutte le altre sfide, sono i dazi. Una questione tutt’altro che trascurabile.”
Con la solita ironia geopolitica che il destino riserva, la tregua commerciale tra USA e UE è arrivata a luglio sotto forma di un patto che ha abbassato quei maledetti dazi al 15%: un taglio considerevole rispetto al 30% minacciato dalla precedente amministrazione Trump e quasi la metà dei tassi iniziali del 27,5% imposti sul settore auto europeo.
Certo, a guardare il bicchiere mezzo pieno, questo 15% è un po’ come ricevere un regalo di Natale… con una firma in calce che dice “con affetto”. Gli industriali ovviamente hanno dato un applauso contenuto: meglio di niente, certo, ma gli enormi costi associati restano un macigno sul collo.
Matej Hornak scrive quasi disperato:
“Un calo della domanda negli Stati Uniti mette a dura prova i produttori slovacchi, ma non finisce qui: la pressione sale anche in altri mercati, dove la concorrenza cinese è diventata una sorta di spaventapasseri per i nostri stabilimenti.”
La transizione verso l’elettrico: tra rinvii e illusioni
Tutti sanno che il futuro è elettrico – o almeno ci dovremmo credere, altrimenti saremmo fuori moda. Eppure, la Slovacchia non è esattamente la culla della rivoluzione ruggente dei veicoli green. Negli ultimi mesi la corsa all’elettrico ha subito qualche intoppo non da poco.
Prendete il colosso Volkswagen: ha preferito il sole e i venti portoghesi per il suo nuovo modello elettrico ID.1, snobbando le montagne slovacche. Non meno significativo è lo spiazzamento di Stellantis, che invece della fabbrica di Trnava ha scelto la sempre seducente Spagna per lanciare i suoi nuovi veicoli elettrici.
Nonostante questa serie di “super scelte” non proprio a vantaggio slovacco, l’analista Hornak assicura che le fabbriche automobilistiche del paese sembrano ancora in gioco, abbastanza competitive per farsi assegnare le produzioni green all’interno dei rispettivi colossi industriali.
Ovviamente, però, il sostegno da parte di governi e istituzioni qualificate è praticamente un miraggio. Anzi, la situazione sembra andare in direzione opposta – praticamente un invito a fallire, se così vogliamo chiamarlo.
Matej Hornak commenta con acheismo:
“Manca qualunque forma di supporto mirato per la trasformazione dell’industria. Il caso di Volvo, che sta aprendo un impianto elettrico nell’est, è probabilmente uno degli investimenti più corposi in questo campo, un’eccezione che conferma la regola.”
Hornak non perde occasione per sottolineare quella che definisce “un altro investimento chiave” con la cinese Gotion High Tech e il partner slovacco InoBat pronti a costruire uno stabilimento di batterie per veicoli elettrici. A onor del vero, però, la realtà è un tantino meno idilliaca.
“Dall’altro lato,” afferma Hornak con fare tragico-solenne, “è evidente la mancanza di un supporto mirato da parte di governo e istituzioni per la trasformazione dell’industria. Anzi, la situazione è diretta l’opposto: con le misure di consolidamento fiscale, l’ambiente di business in Slovacchia sta peggiorando.”
Se non bastasse, aggiunge con l’aria di chi vede il bicchiere sempre mezzo vuoto: “L’aumento delle tasse e dei tributi sulle imprese — come la nuova tassa sulle transazioni finanziarie — penalizza ulteriormente le aziende domestiche sul mercato globale.”
Nel frattempo, il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro slovacco Robert Fico si scambiano due chiacchiere a Pechino, con il mondo che osserva un’esibizione di diplomazia forse poco rassicurante dal punto di vista dei partner europei.
Il governo di Fico ha deciso che la ricetta per sistemare i conti disastrati dello stato slovacco è aumentare le tasse e introdurre nuovi oneri sulle transazioni finanziarie. Questo, sorprendentemente, ha irritato persino la coalizione di governo e ha attirato le critiche dell’industria automobilistica nazionale.
Alexander Matusek, capo dell’Associazione dell’Industria Automobilistica slovacca, ha fatto sapere a Bloomberg che il governo rischia seriamente di fare male al settore con queste scelte sbilanciate, specialmente mentre la Slovacchia cerca di ridurre la dipendenza da alcuni partner commerciali chiave in un contesto geopolitico sempre più incerto.
Naturalmente, la solita porta delle istituzioni slovacche è rimasta chiusa al giornalismo, avendo non risposto alle richieste di commento.
Il rischio strategico di Fico
Fico si è giocato la carta dell’eterna incomprensione nei rapporti con l’Unione Europea, opponendosi alle sanzioni più dure contro la Russia per la guerra in Ucraina, compiendo l’impresa di lamentarsi dell’aumento dei costi energetici e della pressione sull’industria automobilistica locali come condizione per accettare qualunque misura più rigorosa.
Non stupisce allora che migliaia di slovacchi abbiano invaso le strade di Bratislava per protestare contro l’incontro tra Fico e Putin, un confronto che ha scaldato ulteriormente gli animi in una nazione ormai divisa tra posizioni pro-Russia e sostenitori dell’Occidente.
I manifestanti, armati di cartelli e bandiere, hanno espresso il loro dissenso anche oltre Kosice, manifestando contro un governo che sembra due volte incerto, sia sulle alleanze strategiche sia sulle politiche fiscali.
Hornak commenta severamente: “L’atteggiamento più accomodante del governo slovacco verso la Russia e un crescente euroscetticismo generano ulteriore incertezza per le aziende della Slovacchia, imponendo un ulteriore strato di rischio strategico alle loro pianificazioni.”
In parole povere: la reputazione slovacca come partner affidabile in Europa sta scivolando verso il basso, con effetti potenzialmente disastrosi sulle decisioni di investimento, sia per chi è già presente sia per chi sta ancora contemplando l’idea di arrivare.
L’”Europa Detroit” contro la Motor City americana: che confronto ridicolo
Pelakova di Globsec, nel tentativo di prendere le distanze da paragoni fin troppo catastrofici, precisa che anche se l’industria automobilistica slovacca ha guai non trascurabili, l’idea che stia precipitando verso un disastro simile a quello vissuto da Detroit è grossolanamente esagerata.
“Ci sono chiaramente sfide,” ammette con una certa cautela, “ma non fino al punto da far deragliare per davvero la traiettoria attuale, che mi riporta a quel paragone con Detroit, che sinceramente non vedo all’orizzonte.”
“Diciamo che la faccenda ha due facce: da una parte è vero, Detroit è stata la patria di industrie automobilistiche enormi. Sì, è un paragone che accetto e ritengo giusto. Ma sappiamo tutti come è finita Detroit circa 30-40 anni fa, quindi quella parte del confronto, per me, è totalmente inappropriata.”
Insomma, secondo questa lettura un’economia che arranca tra tasse più alte, tensioni politiche interne e sfilate anti-governative non è sufficientemente disastrosa da meritare la stessa triste fama della Motor City statunitense. Da applausi.



