Roche in Svizzera prepara un super investimento di 50 miliardi negli Usa: ecco chi si piega ai capricci di Trump

Roche in Svizzera prepara un super investimento di 50 miliardi negli Usa: ecco chi si piega ai capricci di Trump

Il colosso farmaceutico svizzero Roche ha partorito un piano quinquennale di investimenti da ben 50 miliardi di dollari negli Usa. Un vero e proprio regalo di compleanno anticipato ai cittadini americani! “Questi investimenti rafforzano ulteriormente la già significativa presenza di Roche negli Stati Uniti, con 13 stabilimenti produttivi e 15 siti di ricerca e sviluppo”, sventola l’azienda. Naturalmente, non si può fare a meno di sottolineare che tutto ciò è fatto nell’ottica di creare oltre 12mila nuovi posti di lavoro, perché si sa, i lavori in fabbrica sono l’obiettivo supremo della vita dell’americano medio!

Il piano di Roche è solo l’ultimo di una lunga serie di proclami da parte di multinazionali incapaci di resistere all’attrazione del mercato statunitense. Ovviamente, tutto ciò viene fatto per sfuggire alle barriere tariffarie volute dall’administrazione Trump. Che dire? Ecco un modo brillante per alternare la chiusura dei confini con una finta apertura industriale. Il futuro è roseo per queste aziende, almeno fino a quando non decideranno di chiudere tutto di nuovo, giusto? Chi non ama un bel tuffo di speranza seguito da un’inevitabile disillusione?

Certo, almeno le dichiarazioni di intenti non mancano mai. Restando in campo farmaceutico, ecco che la casa produttrice statunitense Pfizer annuncia di essere disposta a “rimpatriare” produzioni che si trovano all’estero. Le promesse continuano con Eli Lilly, che intende erigere 4 nuovi impianti negli Usa, con una spesa di 27 miliardi nei prossimi 4 anni. E che dire di Johnson & Johnson? Ah sì, 55 miliardi per costruire nuovi stabilimenti entro il 2030. Non possiamo fare a meno di chiederci: ma dove stava tutta quest’energia costruttiva prima?

Ma non finisce qui. Recentemente, le case farmaceutiche europee hanno minacciato di abbandonare il campo se l’Unione europea non si adeguerà con normative più favorevoli. Un bel modo di ricattare, non credete? “Oh, se non ci date quello che vogliamo, scappiamo!” La tipica risposta infantile di chi ha molta più influenza di quanto dovrebbe.

Intanto, nel mondo automobilistico, le case dell’Estremo Oriente non restano con le mani in mano. Hyundai ha presentato un piano da 21 miliardi di dollari per gli Usa. Toyota, nel frattempo, sta valutando di produrre la prossima versione del suo Suv Rav4, mentre Honda ha deciso di trasferire la produzione del modello Civic dal Giappone al suo stabilimento in Indiana. Sarà forse che si sono accorti che gli americani adorano il Civic? E che la produzione in loco potrebbe rendere tutto più… “locale”?

E non dimentichiamo che dalla Germania, Volkswagen sta per iniziare discussioni per costruire direttamente negli Usa alcuni modelli Audi. “Ci sono colloqui costruttivi con il governo statunitense”, chiosano. Quanta buona volontà! Ma in fondo, a chi importa realmente di dove vengono prodotte le auto, finché continuano a girare sulle strade?

Passando al mondo della moda e del lusso, abbiamo il presidente del colosso francese Lvmh, Bernard Arnault, che avverte: il gruppo sarà “obbligatoriamente condotto ad aumentare le produzioni americane” se i negoziati tra Ue e Usa dovessero girare al brutto per i prodotti europei. E chi è la colpa di questo scempio? “Sarà colpa di Bruxelles”, sbotta con gran sicurezza. Un’affermazione che ha provocato reazioni indignate in campo politico francese, specialmente a sinistra. Ma dai, che sorpresa!

E poi ci sono le accuse incredibili rivolte a Bernard Arnault, definito un “venduto agli americani”. Ma che colpo di teatro! In un mondo dove i miliardari danzano al ritmo delle influenze geopolitiche, è affascinante pensare che qualcuno possa considerare l’idea di sostenere i frutti americani come una forma di tradimento. Davvero, ci vorrebbe una buona dose di ironia per decidere se ridere o piangere di fronte a tali affermazioni.

Passiamo ora al settore strategico dei semiconduttori, dove il gigante taiwanese dei semiconduttori, Tsmc, sta facendo di tutto per radicarsi ancora di più negli Stati Uniti. Ha annunciato un investimento di ben 100 miliardi per realizzare un’epopea di cinque impianti di produzione di chip e un centro di ricerca entro il 2023. Secondo le prevedibili dichiarazioni della società, una volta che il piano sarà completamente implementato, ci saranno 40.000 nuovi posti di lavoro. Ma chi ha bisogno di lavoro quando si può vantare un numero così bello?

E non dimentichiamoci di Nvidia, la quale, nonostante le pressioni della Casa Bianca, preferirebbe non rinunciare al suo legame con la Cina. Ma cosa fa? Si impegna a investire 500 miliardi di dollari per costruire supercomputer per l’intelligenza artificiale solo negli Stati Uniti. Geniale! Dopo tutto, chi ha bisogno di coerenza in un contesto del genere?

Infine, non possiamo ignorare l’“allerta” lanciata da un Centro studi di Confindustria, un ente che evidentemente ha trovato il modo di interessarsi attivamente del problema. Con i dazi in atto, il rischio di delocalizzazione delle imprese italiane negli USA è definito “concreto”. Già, proprio come il rischio di pioggia in un giorno di tempesta! Alessandro Fontana, direttore del Csc di Confindustria, ha osservato che l’attuale presidenza ha avuto un impatto dirompente e che la strategia di Biden di incentivare la produzione negli USA ha reso allettante l’idea di trasferirsi. E noi pensavamo che fosse solo un sogno americano!

Per mettere in prospettiva i “rischi” denunciati, Fontana ha ricordato che ci sono circa 80.000 imprese esportatrici, di cui 24.000 dirette verso gli USA. E se consideriamo le grandi imprese, solo il 4% di esse genera circa il 60% dell’export. Facendo un po’ di conti, arriviamo a circa 1.000 grandi imprese, un dato che è un colosso dell’export verso gli USA, occupando 1,5 milioni di dipendenti. Ma chi se ne frega, giusto? I rischi sono solo “focalizzati” su di loro!

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