La Regione Veneto ha gentilmente negato a un signore di 67 anni l’opzione del suicidio assistito. E ora, chissà come se la caverà? «No, non andrò in Svizzera», dice, con una saggezza che solo il chiarissimo orizzonte della sofferenza può dare. «Mi arrangio da solo» è il suo mantra. Ecco, proprio qui si svolge l’affascinante balletto tra la vita e la disperazione, una danza tra il «vivere» e il «farcela da soli».
Questo signore, che per comodità chiameremo Roberto, ha una visione sorprendentemente autonoma della dignità. Una dignità che, sfortunatamente, per lui è intrinsecamente legata all’autonomia. «Non ho bisogno di nessuno, né di un familiare, né di un assistente» sbandiera come se il sostegno fosse un contagocce di vergogna. E incredibile come la vita possa apparire solo se vive in un contesto di pieno controllo, mentre la richiesta di aiuto è vista come un affronto all’esistenza stessa.
La determinazione di Roberto si materializza in una voce lenta, che certamente non ha fretta di farsi sentire. È come se ogni parola pesasse un etto, scelta con cura per combattere un’avversità che il resto del mondo continua a ignorare. È un malato oncologico che ha trascorso diciotto anni in compagnia di un tumore al cervello, un compagno di viaggio che, fino a poco tempo fa, si era comportato in modo esemplare, lasciando il nostro caro Roberto vivere la sua vita serenamente. Ma, ahimè, come tutte le belle storie, la situazione è cambiata: il tumore ha deciso di risvegliarsi.
In effetti, la crudeltà della malattia non ha limiti: crisi epilettiche convulsive, vomito, una confusione mentale che si fa sempre più tangibile, dolore all’encefalo e, peggio ancora, la perdita momentanea di sensi. Che bel colpo di teatro! E non dimentichiamo le parole che fuggono dalla sua bocca come se avessero paura di lui, la vista che si offusca e dolori che si intensificano a ritmo crescente. E, ironia della sorte, tutte le soluzioni possibili sono già bruciate: nient’altro che una sequela infinita di farmaci che, nel caso di Roberto, sembrano lavorare contro di lui.
La domanda, allora, è: perché in un Paese che si proclama moderno e civile, è così difficile accettare il desiderio di una persona di terminare la propria vita in modo dignitoso? Ma certo, in mancanza di alternative migliori, è sempre più comodo rifugiarsi dietro una prassi burocratica che ignora la sofferenza individuale. Semplicemente fantastico, non trovate?
È davvero incredibile come, in un paese che si definisce civile, alcune controindicazioni sembrino fare più danni di un intero pacchetto di sigarette al giorno. Infatti, lo scorso ottobre, un certo Roberto ha avuto il coraggio di chiedere alla sua Asl di riferimento di verificare se potesse finalmente ottenere il lasciapassare per il suicidio assistito. Per chi non lo sapesse, questo procedimento si basa su requisiti specifici stabiliti dalla sentenza della Corte Costituzionale per il caso di Dj Fabo nel 2019. Peccato, però, che Roberto non rientri proprio nel profilo “migliore”.
Il primo requisito, infatti, è che chi desidera accedere a questa “dolce morte” debba essere in corso di trattamenti di sostegno vitale. Ma, sorpresa! Per la Consulta, questa condizione non sembra valere nel caso di Roberto, stando a quanto stabilito nel 2019 e ribadito nel 2024. Praticamente, si tratta di un uomo che non è attaccato a macchinari o costretto a cure mediche che lo tengano in vita, eppure si sente già sul baratro. Ma che logica affascinante, vero? Più si avvicina alla fine, meno diritto ha di decidere cosa farne della propria vita.
Condivide la sua sorte anche un bel gruppo di malati oncologici. Questi promettenti candidati al suicidio assistito si trovano spesso a combattere contro la sofferenza intollerabile, ma, guarda caso, non rientrano nei parametri stabiliti dalla Corte. La brillante Filomena Gallo, avvocata dell’Associazione Coscioni e sostenitrice di Dj Fabo, non ha potuto fare a meno di sottolineare quanto questa situazione sia discriminatoria. Nel marzo scorso, ha presentato ben due nuove richieste di suicidio assistito alla Corte Costituzionale: una per un malato di cancro e l’altra per una persona con una malattia degenerativa. Elemento comune? La sinistra condizione di non avere trattamenti di sostegno vitale in corso.
Ma che cosa ci si aspetta? La richiesta di Filomena Gallo ai giudici è stata nientemeno che di accogliere una nuova questione di legittimità costituzionale, suggerendo di introdurre l’idea di considerare anche la “diagnosi di prognosi infausta a breve” come un’alternativa ai trattamenti di sostegno vitale. È davvero così complicato? Se la Corte decidesse di accettare questa proposta, magari Roberto potrebbe riformulare la sua richiesta. Ma fino ad allora, la sua esistenza sembra essere un limbo doloroso.
Roberto, comunque, non è uno di quelli che si fa prendere dallo sconforto. Ha viaggiato, ha scritto libri e dipinge; insomma, un alto dirigente con una vita scintillante. Eppure, sembra accettare con una nonchalance incredibile la sua malattia: «Ho vissuto una vita felice, da benestante, con rapporti personali che mi hanno gratificato. Va bene così. Io vivo serenamente la mia malattia. Non sono depresso, capisco che ammalarsi e morire fa parte della vita e lo accetto». La modesta accettazione dei tragici eventi, non c’è che dire!
Poi si lascia andare a una riflessione toccante e profonda: «Ho pianto soltanto subito dopo la risonanza magnetica che ha scoperto tutto, poi mai più». E infine, con una nota di sarcasmo che farebbe invidia a chiunque, conclude: «Il via libera per me sarebbe stata una porta aperta, adesso è una porta sbattuta in faccia. Peccato». In sostanza, il suo sogno di una fine dignitosa si è trasformato in una beffa della vita.



