Referendum 2025 sul lavoro: le solite promesse, i No che potrebbero diventare Sì e i partiti che cambiano idea al volo

Referendum 2025 sul lavoro: le solite promesse, i No che potrebbero diventare Sì e i partiti che cambiano idea al volo

Anche leggendo il primo quesito con una calma olimpica, non si può negare che l’elettore possa sentirsi perso davanti alla scheda verde. “Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018”… un’autentica pioggia di riferimenti normativi che lascerebbe confusa anche una mente brillante. Ma non preoccupatevi, senza perderci in inutili dibattiti sull’utilità di tali quesiti scritti in questo modo, andiamo dritti al sodo: ecco per cosa saremo chiamati a votare nei referendum dell’8 e 9 giugno. Prima di scoprire i quesiti, permettetemi di aggiungere due chiarimenti che, per quanto possano sembrare scontati, è bene avere chiari.

Il quorum. 1. Si tratta di referendum che chiedono di abrogare una legge, quindi per approvare la modifica è necessario votare “sì”; se si vota “no”, tutto rimane come prima. 2. È importante sapere che per questi referendum esiste un quorum: se non partecipa al voto almeno la metà più uno degli aventi diritto, il referendum non avrà valore, indipendentemente dal fatto che il sì o il no vinca. E non dimenticate: seggi aperti domenica 8 giugno dalle 7 alle 23 e lunedì 9 dalle 7 alle 15. Non dimenticate la tessera elettorale e un documento di identità, altrimenti, sorprendentemente, non potrete esprimere la vostra opinione!

Ora, passiamo ai quesiti. Il primo, sulla scheda verde, riguarda il *Jobs Act*, quella fantastica riforma sul lavoro partorita dal governo *Renzi*, e chiede di eliminare quel mirabolante “contratto a tutele crescenti”. Di cosa si parla, esattamente?

In aziende con oltre 15 dipendenti, prima del 2015, in caso di licenziamenti illegittimi – cioè quando non c’era una vera giusta causa – era previsto il reintegro del lavoratore. In altre parole, un’azienda si poteva trovare obbligata a riassumere il dipendente cacciato ingiustamente, se così stabiliva un giudice, grazie al noto articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Attenzione però! Questa normativa, già ben “depotenziata” e “mitigata” nel corso degli anni, ha subito un ulteriore abbattimento nel gioioso contesto del *Jobs Act*, giusto per garantire che il termine “giusta causa” rimanga un concetto nebuloso e difficile da afferrare.

Da qui, la questione si fa ancora più intrigante. Se il referendum dovesse passare, ci si potrebbe aspettare un ritornare al passato glorioso dei diritti dei lavoratori? O sarà solo una nuova illusione, un sogno di quelli che svaniscono al risveglio? Perché, vedete, in una società dove il lavoro è sempre più precario e la sicurezza si trova solo nei sogni di una vita migliore, l’idea di riportare in auge l’articolo 18 appare tanto affascinante quanto irrealizzabile. D’altronde, chi non ama un buon gioco di prestigio politico?

Il Jobs Act ha deciso di mettere da parte l’obbligo di reintegro per una varietà di licenziamenti senza giusta causa. Ma tranquilli, è stato sostituito, solo per gli assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015, con un indennizzo economico. E non stiamo parlando di una cifra fissa; no, ci sono le “tutele crescenti”: due mensilità per ogni anno di servizio, che possono arrivare fino a un massimo di 36 mesi. Mica male, vero?

In situazioni come i licenziamenti discriminatori o certi tipi di licenziamenti disciplinari ingiustificati, il reintegro rimane, giusto per non sembrare troppo affrettati nel buttare via i diritti dei lavoratori. Ma grazie a qualche sentenza della Corte Costituzionale, pare che ci sia ancora qualche speranza di riavere il posto di lavoro.

Riassumendo: se vince il “sì” e il referendum riesce a raggiungere il quorum, allora addio contratto a tutele crescenti e bentornato all’articolo 18, completo di reintegro. Ah, e non dimentichiamoci che questo ritorno è già stato “aggiustato” dalla riforma Fornero, che aveva previsto in alcuni casi un’indennità economica invece della tutela. Se vince il “no” o se il quorum non viene raggiunto, tutto rimane come adesso, con quelle magnifiche tutele crescenti.

Le motivazioni del “sì”: dare ai 3,5 milioni di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 le stesse protezioni dei “veterani”. Secondo la Cgil, il Jobs Act penalizza questi lavoratori, lasciandoli sotto il peso di una legge che impedisce il reintegro anche quando un giudice ha suggerito che il licenziamento fosse ingiusto. E le ragioni del “no”? Il Jobs Act ha reso il mercato del lavoro più flessibile, mentre l’articolo 18 era troppo rigido. Certo, pecrché mai dovremmo darci delle regole chiare quando possiamo affidarci a indennizzi variabili?

A favore: PD, M5S, Avs. Contrari: FdI, FI, Lega, Noi Moderati, Iv, Azione, +Eu.

Passiamo al secondo quesito, quello che riguarda il tetto alle indennità di licenziamento. Qui si parla delle piccole imprese, quelle fino a 15 dipendenti. Attualmente, se un lavoratore viene licenziato senza giusta causa, il massimo risarcimento che può ottenere è di 6 mensilità. Una bella cifra, vero?

Se vince il “sì” e si raggiunge il quorum, il tetto massimo viene abrogato e i giudici decideranno il risarcimento senza limiti. Se vince il “no” o il quorum non viene raggiunto, il limite resta. Le ragioni del “sì”: i circa 3,7 milioni di dipendenti delle piccole imprese guadagnerebbero più tutele. Ma le ragioni del “no”? La mancanza di un limite spaventerebbe gli imprenditori. Ah, la paura di assumere per colpa di un potenziale risarcimento! Che dramma!

A favore: PD, M5S, Avs. Contrari: FdI, FI, Lega, Noi Moderati, Iv, Azione, +Eu.

Il terzo quesito riguarda i contratti a termine, quella meravigliosa invenzione che consente di stipulare contratti fino a 12 mesi senza causale. È una di quelle chicche che lascia le aziende libere di assumere senza troppe domande. Se vince il “sì”, anche per i contratti di 12 mesi sarà richiesta una causale. Se vince il “no”, nulla cambia. Che belle opportunità di precariato!

Le motivazioni del “sì” cercano di limitare i contratti a termine, per ridurre quella che la Cgil descrive come “una piaga”. E quindi, andiamo avanti, giusto? È proprio quello che serve al nostro mercato: più regole, meno libertà. L’unico problema è capire chi giocherà il ruolo del cattivo in questo film.

In Italia, secondo il sindacato, ben 2 milioni e 300 mila persone si trovano con contratti di lavoro a tempo determinato. Un numero che potrebbe far pensare a una emergente classe di precari, ma no, è solo il modo elegante per descrivere chi è legato a un filo invisibile, pronto a spezzarsi con la prima tempesta del mercato. Del resto, è risaputo che l’assenza di causali toglierebbe alle aziende l’abilità di adattarsi a queste improvvise esigenze. Che spasso! Il contenzioso crescerebbe ulteriormente, perché si sa, i veri ammortizzatori sociali sono le aule di tribunale.

Guardando i dati freschi di Istat: nel IV trimestre del 2024 rispetto all’anno precedente, i lavoratori a tempo indeterminato sono aumentati del +3%. E quelli a termine? Ah, una piacevole diminuzione del -10%. Bravo Istat, sarebbe quasi d’aiuto se non avesse chiarito tutto in un colpo solo.

A favore di questa meravigliosa situazione troviamo il PD, il M5S e Avs. Ovviamente, contro ci sono FdI, FI, Lega, Noi moderati, Iv, Azione e +Eu. Un vero e proprio consenso nazionale, se così si può chiamare.

Sicurezza negli appalti

Passiamo ora all’argomento che non delude mai: la sicurezza. Il penultimo quesito in materia di lavoro, con scheda rossa, riguarda la responsabilità negli appalti o subappalti. In gran stile, si propone di eliminare quelle fastidiose norme che limitano la responsabilità dell’impresa committente in caso di infortuni legati a rischi specifici. Sia mai che una responsabilità leggera danneggi l’andamento delle vendite!

Se il sì trionfa nel giorno delle votazioni, l’impresa committente dovrà rispondere in solido con l’appaltatore per qualsiasi danno non coperto dall’ Inail. Un’idea geniale: poniamo fine al problema responsabilità e vediamo chi si arrabbia. Se invece vince il no o manca il quorum, restiamo esattamente come siamo: il mondo dell’insensatezza continua.

Le ragioni per dire sì sono chiare come il sole: la responsabilità solidale renderebbe l’impresa più attenta rispetto alle normative di sicurezza. Forse si eviterebbero scelte basate sul massimo ribasso, perché si sa, la sicurezza è secondaria rispetto al risparmio. D’altronde, chi si preoccupa di un operatore infortunato quando ci sono bilanci da far quadrare?

Al contrario, il no sostiene che questa responsabilità riguarderebbe rischi specifici, un argomento che certamente esula dalle competenze tecniche delle imprese. Bravo, è sempre bello rimanere ignoranti sui rischi reali.

In questa giostra, a favore ci sono sempre i soliti noti: PD, M5S, Avs, +Eu. Dall’altra parte, i soliti avversari: FdI, FI, Lega, Noi moderati, Azione. Tutto resta in famiglia, come sempre, con una bella dose di sarcasmo sotto il sole italiano.

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