Quando la giustizia si fa punching ball: 9 anni chiesti per il branco di Ciro Grillo mentre la vittima diventa il bersaglio numero uno

Quando la giustizia si fa punching ball: 9 anni chiesti per il branco di Ciro Grillo mentre la vittima diventa il bersaglio numero uno

Ah, la giustizia italiana, sempre pronta a regalarci spettacoli degni di una soap opera, questa volta però in salsa giudiziaria. Parliamo del cosiddetto caso Grillo, dove la sentenza sembra già scritta prima ancora che il processo si concluda, con richieste di pene che sono quasi un invito a una vacanza dietro le sbarre. Il procuratore Gregorio Capasso ha alzato la posta: nove anni di reclusione più la bella compagnia dell’interdizione dai pubblici uffici e dalla professione. Un bel mix, non c’è che dire.

Il dramma ruota attorno a quattro giovani: Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. Accusati di violenza sessuale di gruppo, o almeno questo sostiene una ragazza, che qui chiameremo convenientemente Silvia, insieme alla sua amica Roberta, che sembra abbia avuto un ruolo più da spettatrice – forse involontaria – della triste vicenda. Silvia racconta di essere stata prima vittima di Corsiglia in solitaria, poi – seguendo un copione da incubo – degli altri tre, mentre Roberta dormiva beatamente sul divano. Immagini e video a sfondo sessuale? Certo, nessun problema, se sono stati realizzati accanto a una persona addormentata, il rispetto è un optional.

Il pubblico ministero, in quella che sembrava una dichiarazione da manuale di buonismo e tragicità, ha chiuso il suo discorso con un tocco degno di una tragedia greca: «Ci sono sei ragazzi coinvolti: due ragazze che hanno subito quello che hanno subito e quattro ragazzi che comunque vivono una situazione drammatica». Parole dolci, cullate da una paternalistica sensibilità che sa tanto di patetico teatro. E poi l’apice dell’emozione: «L’abbiamo visto piangere ieri, uno di loro», si riferisce a Ciro Grillo, che ha pure trovato il tempo per scendere in aula e concedersi un momento di commozione. No, davvero, chi non verserebbe una lacrima di fronte a cotanta sciagura?

Sembra quasi un film in cui vittime e imputati finiscono per trovarsi in una storia molto più grande di loro, coinvolti in un dramma collettivo di cui nessuno sembra realmente padrone. Una pietà condivisa, quella del procuratore, che tenta disperatamente di restare calmo mentre nel tribunale si consuma l’ennesima puntata di un processo fatto più di sentimenti che di fatti certi. Un modo elegante per dire che non si sa bene che pesci prendere, ma intanto le richieste di pena fioccano come coriandoli a Carnevale.

Nel frattempo, tra lacrime, immagini compromettenti e accuse pesantissime, questa vicenda resta uno stanco cliché all’interno della giustizia italiana: il pubblico si schiera, le parti si ergono a giganti morali, ma alla fine restano tutti impigliati in quella famigerata «storia più grande di loro», che sembra una scusa perfetta per tirarsi indietro senza però mollare il microfono.

Finalmente, per la prima volta, uno degli imputati ha deciso di affrontare i giudici faccia a faccia, con la solita performance patetica davanti a tutti, annunciando la sua innocenza e piangendo lacrime di coccodrillo. Ovviamente, la versione per cui la ragazza sarebbe stata consenziente—come dire “tutti sapevano tutto, no?”—non si fa attendere. Nel bel mezzo di questo teatrino, il nostro eroe ha voluto condividere il fatto che a dicembre diventerà papà, come se la gravidanza fosse la sua licenza per passare inosservato. Ah, e dulcis in fundo, ha iniziato Giurisprudenza e si è pure laureato dopo l’interrogatorio. Ora è un avvocato praticante: morale della favola, crisi di coscienza assente.

Vinicio Nardo, avvocato con un’ironia degna di un cabarettista, ha detto:

“È inutile negarlo: come potrei non immedesimarmi in un praticante prossimo padre? Come non identificarmi in un imputato che spiega con umiltà che ‘eravamo tutti consapevoli’? Peccato che in questo processo tutto è controverso tranne una cosa: una persona dormiva.”

Per concludere in bellezza, la richiesta di risarcimento avanzata dagli avvocati di Roberta è stata un bel 50 mila euro, più spese legali. Ovviamente, 20 mila di questi si chiedono subito, come acconto, per non farsi mancare nulla.

Ora, però, rubiamo la scena alla trafficata squadra legale di Roberta e diamo tutto il meritato spazio a Giulia Bongiorno, l’avvocatessa di Silvia. Lei sì che sa come tenere il pubblico attento: ha fatto un crescendo di emozioni ripercorrendo ogni singola parola della ragazza, dalla prima violenza subita da Francesco Corsiglia fino al carnet della tragedia collettiva. Ha smontato le chat—quelle meravigliose testimonianze digitali tanto temute—definite “prove schiaccianti” che, per sua stessa ammissione, non lasciano scampo a nessuna interpretazione.

E non è finita qui: con un tocco da sceneggiatrice, ha messo in rilievo il clamoroso tradimento, o meglio, il colpo al cuore di Roberta nei confronti di Silvia. «Una delle pagine più nere di questo processo» ha sottolineato, ricordando che Roberta non solo non ha alzato un dito per svegliare Silvia dopo la prima violenza, ma era pure la sua “migliore amica”. Anzi, no, non lo potrà più essere. E per completare il quadro, la nostra amica immobile può tranquillamente ricevere solo l’attenuante dell’alcol. Che novità.

Ecco il capolavoro di sensibilità: «La mia assistita», ha detto, «viene ripetutamente definita tr… non perché lo fosse all’inizio, ma perché dopo tanto vodka lo diventa». Atti così sconvolgenti da far venire i brividi, immaginiamo. Poi ci rivelano che siamo ancora nel 2025 e per qualche arcaico uomo la donna resta sempre un essere inferiore, il cui consenso vale meno di uno zero assoluto. Concetti così lontani dalla civiltà da far impallidire.

Ovviamente, non poteva mancare il j’accuse finale, quel rimprovero studiato a tavolino per scandire la lunga tortura genomica cui è stata sottoposta Silvia: esame testimonial durato 35 ore, con ben 1675 domande a fine processo. Se c’è qualche altro povero teste al mondo ad aver passato un inferno simile, ancora non lo sappiamo. Il risarcimento? Una provvisionale di 100 mila euro, poi vedremo quanto il tribunale vuole regalare in totale per consolazione.

Ma ieri, naturalmente, si è svolto anche quel piccolo giochino doloroso che ogni imputato teme: ascoltare la sentenza, o meglio, la richiesta di pena. Nove anni di carcere: cifra che nessuno si aspettava, ma che fa comunque rabbrividire quando pronunciata a voce alta. Immaginate il panico dalle altre parti del telefono: famiglie sconvolte, genitori con i capelli dritti, preoccupati non solo per la libertà dei propri figli ma pure per il disastro economico che questa condanna può portare. In effetti, perché preoccuparsi solo del fattore morale quando la busta paga è in ballo?

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