Che gioia sapere che i suicidi tornano a salire in Europa, perché evidentemente tutto stava andando troppo bene. Nel 2021, infatti, il suicidio ha rappresentato un esilarante 18,9% dei decessi tra i giovani tra i 15 e i 29 anni, superando addirittura gli incidenti stradali, che si sono “fermati” al 16,5%. Ma non temete: l’Italia, con la sua proverbiale tranquillità mediterranea, si difende ancora bene con un tasso di “soli” 7 suicidi ogni 100mila abitanti, molto più basso rispetto ai freddi spettri del Nord e dell’Est Europa, dove invece la tendenza si innalza come un falco affamato.
Ma perché proprio nel gelido Nord si registrano volontà così “vivaci” di porre fine alla propria esistenza? Le teorie sono tante e variegate: una rete sociale superficiale (immagino amici di smarthphone e poca voglia di uscire), il clima che oscilla tra il norvegese “buio assoluto” e il russo “freddo letale”, e persino l’influenza della religione, quella roba che nei Paesi cattolici – ovvero dove l’Italia è ancora felicemente incatenata – aggiunge qualche kilogrammo di stigma sociale che dissuade dal “fare il grande passo”.
È poi doveroso ricordare con la solita delicatezza che, per ogni suicidio consumato, esistono almeno cento “soli sopravvissuti” costretti a fare i conti con un dolore psicologico che varia a seconda della loro “prossimità” con la tragedia. Quindi, sì, i numeri sono molto più alti di quanto le statistiche fredde possano raccontare.
A fare chiarezza su questo splendido panorama, con la magnanimità che lo contraddistingue, è stato Maurizio Pompili, professore ordinario di Psichiatria presso la Sapienza Università di Roma e direttore dell’Unità operativa complessa di Psichiatria all’azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea di Roma. Intervenendo in collegamento video all’evento in Senato dedicato alla Giornata mondiale della prevenzione del suicidio – che come sempre mostra quanto ci sia tanto da fare – haspiegato con candore ciò che dovrebbe essere ovvio ma che, evidentemente, abbiamo bisogno di ribadire: i potenziali suicidi in realtà non vogliono morire, vogliono solo che il loro dolore mentale, ormai diventato insopportabile, venga “alleviato”. Una rivelazione che si può sintetizzare così: aiutiamoli a non soffrire, piuttosto che demonizzarli o ignorarli.
L’illustre docente continua a ribadire che la prevenzione è possibile, a patto di riconoscere questa sofferenza umana e impegnarsi per mitigarla. E come? In Italia, c’è un vero e proprio baule dei sogni nel quale riporre questa speranza: la formazione a tappeto di pediatri e medici di famiglia, la linea di prima assistenza, che è il filtro più cruciale nella lotta contro il gesto estremo.
Uno studio condotto su un’isola piccolissima, quindi con una comunità tanto piccola da aver fatto invidia a un condominio, ha mostrato che una formazione dedicata a questi professionisti ha un impatto positivo e misurabile sulla riduzione dei tassi di suicidio. Ma, lamenta con toni tra il sconsolato e l’incredulo, bisogna ancora lavorare molto su quella povera bestia mitologica chiamata “cultura della prevenzione”:
“Serve educare, formare, sensibilizzare — nelle scuole, nei centri di aggregazione, comunicando in base all’età e al pubblico”. Perché, ovviamente, più persone (dai nostri affezionati medici alle comunità meno solide) comprendono la gravità e la complessità del problema, più si combatte questa tragica piaga che preferiremmo ignorare dietro un gesto di comodo silenzio.
Le strategie europee? Il salvagente della Germania
Non poteva mancare un’occhiata oltremanica, o meglio, alla Germania, che ha deciso di investire in programmi strutturati e mirati per combattere gli impulsi suicidari con la stessa ferocia di un agente segreto. Progetti territoriali, formazione continua e azioni concrete: un cocktail che sta facendo parlare di sé, forse anche perché riconoscono che non si tratta solo di dati da archiviare, ma di vite da salvare con pragmatismo senza sconti.
Peccato che in Italia tutto questo sembri ancora un miraggio lontano. Per ora, ci si consola con fattori “culto-religiosi” e meteore statistiche, in attesa che qualcuno finalmente si decida a mettere da parte l’ipocrisia e a fare sul serio. Ma, come sempre, il compromesso politico e la distrazione sociale sembrano più forti di qualunque buona intenzione.
Intanto, tra numeri sconsolanti e strategie faticose da realizzare, rimane la consapevolezza di un dolore immenso e spesso invisibile, che con un po’ di sforzo in più potremmo provare a contenere almeno un poco. Sperando che non rimanga tutto solo una bella teoria da recitare in occasioni mondane e conferenze stampa.
Ah, la dolce Italia, culla di arte, cultura… e suicidi in crescita. In barba a ogni buon senso e a qualsiasi piano d’azione efficace, sembra che il nostro Paese decida di non decidere nulla di serio per prevenire lo spargersi di tragedie personali. Ma diamoci da fare, che ci sarà pure un modo per accendere qualche luce blu sui monumenti e sentirci un po’ più inclusivi, no?
Perché, amici, mentre le città si illuminano di un bell’azzurro simbolico grazie a Telefono Amico – che è già un miracolo, diciamolo – i dati Istat non sono affatto rassicuranti: ogni giorno dieci persone si tolgono la vita, ovvero oltre 300 al mese. Un numero che fa balzare a livelli mai visti dal 2015 il tasso di suicidi, portandolo a 0,40 ogni 10mila abitanti. Ma perché preoccuparsi? Illuminare tutto di blu fa molto “prevenzione,” giusto?
L’Italia e la sua combattuta lotta… con il nulla
Ovviamente, nonostante questi numeri da bollettino di guerra, l’Italia si distingue per la sua “efficienza” all’incontrario: niente piano nazionale integrato, niente monitoraggio in tempo reale. Un buco nero burocratico e istituzionale che probabilmente farà risparmiare qualche euro ma intanto lascia la morte sempre in agguato, silenziosa e impietosa. Che c’è da fare, allora? Illuminare di blu qualche statua e sperare che la tragedia si illumini a sua volta?
Telefono Amico, con tutta la sua proverbiale gentilezza, chiede ben altro: un numero di pubblica utilità h24 per la prevenzione, un piano coordinato tra scuola, sanità, lavoro e forze dell’ordine, e anche—udite udite—una campagna nazionale contro lo stigma e per l’informazione. Spiccioli, insomma, roba da poco se confrontata all’apatia istituzionale che regna.
Ma non basta. Si domandano pure protocolli clinici seri per gli ospedali e i centri salute mentale per smettere di prendere in giro chi è in crisi, con valutazioni, gestione e monitoraggio reali, non rituali. E poi, coinvolgere il Terzo settore, quelli che con decenni di esperienza sul campo potrebbero mostrare come si fa sul serio, non come un dilettevole progetto spot per la giornata mondiale.
Quando “formare” diventa un’esclusiva da salottino
In alcune città italiane, a quanto pare, sono stati organizzati corsi di formazione per medici, caregiver e gruppi a rischio. I risultati? Sorprendentemente, i tassi di suicidio sembrano diminuiti dove almeno qualcuno si è preso la briga di agire. Sì, la scoperta dell’acqua calda arriva proprio da questo: formare le persone funziona. Ma quanto è difficile convincere i vari apparati a considerare la formazione una priorità e non uno spreco di tempo?
Chissà perché si parla sempre di torce blu, monumenti illuminati e belle parole, ma poi quando arriva il momento di tagliare il nastro a un vero piano strutturato la luce si spegne e restiamo nell’oscurità. Il loop irresistibile della nostra gestione nazionale dei problemi seri.
Le proposte di Telefono Amico: utopie o realtà ignorate?
Facendo un salto dalla parte della concretezza proposta da Telefono Amico, qui troviamo un elenco di richieste che sembrerebbero postulati elementari per qualunque Stato che si prenda sul serio. Ma purtroppo, questa è l’Italia, dove il comune senso dello Stato è spesso l’unico male incompreso e ignorato.
Innanzitutto, un numero verde attivo 24 ore su 24, tutti i giorni, per rispondere alle chiamate disperate di chi si sente sull’orlo del baratro. Poi, un piano nazionale congiunto che coinvolga i principali settori sociali: la scuola, per educare; la sanità, per curare; il lavoro, per sostenere; e le forze dell’ordine, per intervenire. E, mi raccomando, non dimentichiamoci della sensibilizzazione, magari una campagna anti-stigma che faccia capire finalmente a tutti che il suicidio non è un tabù da nascondere sotto il tappeto.
E infine, i protocolli clinici, perché lasciare al caso il destino di chi soffre è un lusso che nessuna democrazia dovrebbe concedersi. Ma il vero tocco di classe sarebbe dare spazio al Terzo settore, quei valorosi sempre in prima linea, capaci di fornire quel bagaglio d’esperienza che solo chi ci è passato davvero può comprendere e comunicare.
In conclusione, la situazione è questa: in Italia i suicidi aumentano, la politica resta sorda o distratta, e le luci blu restano solo… luci blu. Se mai vi troverete a camminare vicino a uno di questi monumenti illuminati, fermatevi pure a riflettere. Forse il blu è solo un riflesso di una tristezza istituzionale che non sa da che parte girarsi.