Quello che attualmente Donald Trump sta orchestrando con “il resto del mondo” è un vero e proprio test di forza. Gli Stati Uniti riescono ancora a mantenere il loro potere e la loro influenza tali da costringere ex alleati e avversari a sottomettersi ai suoi diktat economici, accettando di pagarne il prezzo? O sarà che le manovre messe in atto da Washington si ritorceranno contro di loro, isolandoli e accelerando il loro declino?
Una risposta concreta potrà emergere solo nel medio-lungo periodo. Nel breve termine, però, è il momento in cui le politiche commerciali aggressive e le minacce portano i frutti migliori, ovvero prima che le “vittime” abbiano il tempo di riorganizzarsi e considerare alternative. E a dirla tutta, qualche risultato iniziale, almeno in termini di annunci, Trump riesce a portarlo a casa.
Recentemente, il conglomerato sudcoreano Hyundai ha presentato un piano per investire negli Stati Uniti un importo stratosferico di 21 miliardi di dollari. Quasi 6 miliardi saranno destinati alla costruzione di un nuovo impianto siderurgico capace di produrre quasi 3 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Questo metallo, prodotto sul suolo americano, non sarà soggetto a dazi e servirà anche per la produzione locale delle automobili Hyundai, che verranno a loro volta potenziate. Hyundai stima che questi investimenti porteranno alla creazione di 14mila nuovi posti di lavoro. Ovviamente, i posti che nascono negli States, sebbene non equivalgano perfettamente, non si creano, o addirittura si perdono, altrove.
Un’illusione di benevolenza?
Secondo Reuters, anche la giapponese Honda ha deciso di costruire la nuova serie delle Civic ibride nello stato dell’Indiana, non in Messico, per sfuggire ai dazi sui prodotti provenienti dal paese centroamericano. La scelta di Hyundai sembra essere più razionale, dato che prevede di produrre localmente anche i materiali essenziali per la fabbricazione delle auto. Le case automobilistiche che si limitassero a spostare solo la produzione di veicoli negli Stati Uniti, dovrebbero comunque importare acciaio soggetto a dazi oppure utilizzare quello, più costoso, prodotto dai fornitori statunitensi. Questo principio vale per ogni componente o materiale che si affida a una filiera con diramazioni oltre i confini a stelle e strisce. Dunque, l’intento di indurre a rilocalizzare tramite la minaccia di dazi risulta ben più complicato di quanto appaia.
Un giocattolo per le multinazionali?
Un’altra mega operazione è stata annunciata dal gigante taiwanese dei semiconduttori, Tsmc. Già attivo nel potenziare la propria presenza negli USA, il gruppo ha elevato a 100 miliardi il valore del suo investimento, pianificando la costruzione, entro il 2023, di 5 fabbriche di chip e di un centro di ricerca. Secondo la società, una volta che il piano sarà pienamente sviluppato, si creeranno 40mila nuovi posti di lavoro.
Ma la politica della Casa Bianca ha ripercussioni anche sulle multinazionali americane che negli anni passati hanno esternalizzato gran parte della produzione all’estero, dove il lavoro costa meno e i diritti dei lavoratori sono spesso calpestati. Ora questi gruppi sono costretti a “tornare a casa” sotto la minaccia di dazi e attratti da promesse di vantaggi fiscali particolarmente favorevoli che possano compensare i costi maggiori del lavoro.
La casa farmaceutica americana Pfizer ha dichiarato di essere pronta a “rimpatriare” produzioni attualmente situate all’estero, mentre l´azienda concorrente Eli Lilly ha annunciato la creazione di 4 nuovi impianti negli USA, investendo 27 miliardi nei prossimi 4 anni. La Johnson & Johnson ha optato per una strategia simile, ma in scala più ampia: si parla di 55 miliardi per costruire nuovi stabilimenti entro il 2030.
Infine, c’è Apple, che ha sempre mantenuto la sede principale negli Stati Uniti mentre ha spostato gran parte della produzione altrove, iniziando dalla costruzione e assemblaggio degli iPhone, effettuati in Estremo Oriente, Cina e India inclusi. Oggi, Apple ha promesso di investire 500 miliardi negli USA, in primis per un grande stabilimento in Texas. Un piano già avviato prima della vittoria di Trump, ma che è stato amplificato dopo l’arrivo del nuovo presidente, con 20mila nuovi posti di lavoro previsti.