Ogni nuova tassa è solo un modo raffinato per torturarci ancora di più

Ogni nuova tassa è solo un modo raffinato per torturarci ancora di più

Ha optato per il nome ‘Coletta’ per raccontare la sua storia senza rivelare la propria identità, ma ora Ada, 44 anni, campana, ha deciso di uscire allo scoperto, condividendo il suo dramma in un video.

A parlare è sua sorella Celeste, dato che Ada, colpita dalla SLA diagnosticata l’anno passato, ha perso la capacità di esprimersi verbalmente.

“In meno di otto mesi questa malattia mi ha completamente consumata. Con una rapidità devastante mi ha tolto la mobilità delle mani, delle gambe e la parola. La vita è una meraviglia, ma solo fino a quando la si può realmente vivere, e io ci sono riuscita. Ho affrontato con passione gioie e dolori, e ho sempre lottato per ciò in cui credo, come la libertà di scelta. Mi sono rivolta alla mia Asl, coinvolgendo persino il tribunale, per chiedere ciò che per me significa dignità: poter scegliere una vita qualità e una morte serena, accanto alla mia famiglia, nel mio territorio, quando la sofferenza sarà insopportabile. E combatterò per questo diritto finché avrò energie. Ma quanto è crudele dover impiegare le ultime forze per una lotta così?”

Ovviamente, Ada si è scontrata con il muro di un diniego al suicidio assistito da parte della sua azienda sanitaria. Non contenta, tramite un team legale coordinato dall’avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale di un’associazione per i diritti civili, ha inoltrato un ricorso d’urgenza al tribunale di Napoli. Tutta questa trafila è nata dopo che l’azienda sanitaria ha fatto orecchie da mercante riguardo alle sue richieste.

Durante l’udienza, si è “pactato” un nuovo esame della sua situazione. Le visite sono state effettuate e ora Ada aspetta gli esiti, sperando in un barlume di giustizia.

Il rifiuto iniziale si basava sull’assenza di ben tre dei quattro requisiti indicati dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale per accedere alla morte volontaria assistita in Italia (la celebre sentenza “Cappato-Antoniani”). L’unico criterio riconosciuto è stato la patologia irreversibile di cui soffre Ada. Peccato che mancassero, stando all’azienda sanitaria, la volontà dichiarata di procedere, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e la sofferenza ritenuta intollerabile dalla paziente.

Filomena Gallo afferma:

Ada sta vivendo un’esperienza umanamente e giuridicamente straordinaria. La legge e la Corte costituzionale riconoscono il diritto all’autodeterminazione, anche nelle decisioni riguardanti vita e morte. È una responsabilità delle istituzioni e delle autorità sanitarie far rispettare questo diritto senza perdite di tempo.”

Continua poi:

“Siamo in attesa della relazione e del parere definitivo dell’azienda sanitaria, così che Ada possa finalmente decidere della sua vita nel rispetto totale della sua volontà, senza ulteriori intoppi burocratici inutili.”

<pAd oggi, siamo arrivati a ben 16 persone che hanno ottenuto l’ambito lasciapassare per accedere al suicidio assistito in Italia. Di queste, 11 hanno effettivamente usufruito del “privilegio”: 7 assistite dal solerte team legale dell’Associazione Luca Coscioni, mentre quattro sono state scoperte tra articoli di giornale e accessi agli atti (mica cotica: tre in Toscana e una nell’immancabile Emilia Romagna). Le restanti 5? Hanno fatto marcia indietro o, semplicemente, non hanno potuto procedere. Sì, è un po’ come una selezione rigida per pochi eletti.

Ma non sperate in una legge nazionale chiara e definitiva: in Italia tutto avviene sotto il manto di una sentenza della Corte costituzionale, la numero 242 del 2019, un capolavoro di giurisprudenza su misura per il caso Cappato-Antoniani. Così, per l’“aiuto alla morte volontaria” – termine eufemistico, che fa tanto crescente civiltà – si deve accontentare di regole cucite addosso a un manipolo di prescelti.

La Consulta, con quella sua geniale incapacità di fare le cose semplici, ha deciso che il suicidio assistito è legalizzato solo se ricorrono condizioni rigorosissime: la persona deve essere perfettamente capace di decidere da sola, affetta da una patologia irreversibile (non vale l’influenza stagionale), provare una sofferenza fisica o psicologica che solo lei stessa può definire “intollerabile” – e siamo alle solite definizioni fumose –, e, ciliegina sulla torta, deve dipendere da trattamenti di sostegno vitale.

Da qui parte tutto il gran giro burocratico che vede coinvolto il Servizio Sanitario Nazionale. Questo non ha certo il compito semplice di verificare requisito per requisito, anzi: deve farlo seguendo pedissequamente le modalità stabilite nelle leggi sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (Dat), articoli 1 e 2 della legge 219/17, e ottenere il parere del comitato etico… come se già non fosse abbastanza, bisogna pure assicurarsi che l’esecuzione avvenga senza abusi, nel massimo rispetto della dignità – chissà chi la definisce veramente – ed evitando ulteriori sofferenze al paziente. Insomma, una vera passeggiata al limite del burocratese, perfetta per salvaguardare “gli interessi” di tutti, tranne forse del diretto interessato.

La recente sentenza costituzionale n. 135 del 2024 ha saputo aggiungere quel tocco finale di “modernità” ampliando il requisito del trattamento di sostegno vitale per includere tutti quegli interventi che, a dire loro, sono sotto la “gentile” responsabilità di familiari e caregiver. Ecco il miracolo: una procedura high-tech oppure una semplice assistenza quotidiana svolta dal nipote di turno hanno lo stesso peso nel sacrario della morte assistita. Inoltre, la Corte ha stabilito che il requisito è soddisfatto anche se il trattamento non è in atto perché, udite udite, può essere legittimamente rifiutato dalla persona malata in questione. Tradotto: puoi dire di no alle macchine, e questo basta a farti rientrare nei parametri.

La democraticissima giungla normativa italiana

Se speravate che in Italia si facesse chiarezza con una legge nazionale che regolasse il suicidio assistito come si deve, beh, benvenuti nel Paese del “vediamo come va”. In assenza di un testo legislativo, si affida tutto al caso, alle sentenze, e a un sistema che più complicato e labirintico non si potrebbe. Gli individui malati si trovano così a navigare tra mille controlli, comitati etici, pareri e un’interpretazione soggettiva della propria sofferenza, il tutto perché la politica non ha (o non vuole avere) il coraggio di affrontare l’argomento in modo diretto e trasparente.

D’altronde, non è forse questa la versione italiana della democrazia? Far vivere i cittadini – o lasciarli spegnere – avvolti in un groviglio di leggi ambigue e sentenze piazzate qua e là come toppa temporanea, sperando che nessuno protesti troppo. E mentre i malati aspettano, il Paese può continuare a vantarsi all’estero di avere una “giurisprudenza avanzata” sull’eutanasia, peccato solo che per chi ne ha bisogno non sia affatto semplice viverla.

Il paradosso dell’assistenza “limitata” e della dignità protetta

È veramente meraviglioso come il sistema sanitario nazionale italiano riesca a prendersi la responsabilità di “proteggere la dignità del paziente” e allo stesso tempo mette a disposizione un percorso che sembra più quello di una prova a ostacoli che di una decisione libera e consapevole. Tra comitati etici territoriali, pareri obbligatori, verifiche dettagliate e definizioni ambigue di “sofferenza intollerabile”, sembra quasi che l’intero impianto sia stato progettato per scoraggiare più che per aiutare.

Così, mentre i familiari diventano ‘assistenti di fatto’ e ogni piccolo gesto di cura rientra nelle maglie di una “procedure altamente tecniche”, la persona malata si ritrova al centro di un meccanismo che la sottopone a un calvario di verifiche e giudizi. La dignità, insomma, sembra a volte un concetto da salotto buono, sbandierato come valore cardine ma quasi impossibile da concretizzare nelle infinite pieghe del sistema.

In definitiva, se volevate un modello di riferimento per un suicidio assistito “ben fatto”, la nostra Penisola vi regala una versione tutta sua: complicata, farraginosa, ipocrita, ma soprattutto garantista… verso un meccanismo che si prende cura più di se stesso che delle persone che vorrebbero porre fine alla loro sofferenza. Ma tanto, finché si continua a parlare di “diritti di tutti” in astratto, chi di dovere può sempre tacere e temporeggiare.

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