Nessuno sembra volerlo dire apertamente, ma l’entourage di Elon Musk aveva già messo gli occhi sul clamoroso incidente che ha coinvolto il rogo di auto Tesla alla periferia di Roma. Questo evento è considerato il più grave attacco a uno store della marca di veicoli elettrici in tutta Europa.
Secondo il “ministro dell’efficienza” dell’amministrazione Trump, non ci sono dubbi: si tratta di un atto di terrorismo. Strano, però, che solleciti una tempestiva indagine da parte del governo, mentre non è chiaro se Musk stesso stia effettivamente premendo per chiarire la questione, come accade in situazioni di emergenza. Solo 48 ore prima del rogo, si era svolta una giornata di protesta internazionale contro di lui, il “Tesla Takeover”, il 29 marzo, durante la quale si erano registrati atti di teppismo in Francia, Germania e negli USA.
Il mistero sotto la tettoia
Il pool antiterrorismo della Procura è al lavoro: in attesa di una relazione da parte della Digos sul rogo di ben diciassette Tesla, si susseguono le ipotesi. Le prime indagini non confermano ufficialmente la matrice dolosa, ma i dettagli raccolti dai vigili del fuoco e dalla polizia scientifica lasciano intendere tutt’altro. Otto auto danneggiate sotto una tettoia e altre nove a pochi metri di distanza suggeriscono un’azione mirata. Sembrerebbe che qualcuno abbia avuto accesso al complesso di Tesla, scavalcando la recinzione di un’area aperta al pubblico dal 2020. Ma ahimè, che fine ha fatto il buon senso?
Questa non è una vera e propria concessionaria, ma un luogo in cui è possibile ordinare, provare e ritirare le auto elettriche. Allora, come mai è così semplice per gli agenti del ripristino dell’ordine ipotizzare un atto vandalico, ma così difficile definire strategie di prevenzione? Le fiamme, violente e rapide, suggeriscono l’utilizzo di sostanze acceleranti. Ed ecco che si torna a pestare il terreno di quella nebulosa “efficienza” operativa in materia di sicurezza.
Un allarme silenzioso
Domenica notte, alle 4.30, scatta il sistema d’allarme nel deposito, ma il mistero resta fitto. Siamo di fronte a una crisi che scotta eppure avanza in modo agonizzante, nel silenzio assordante delle istituzioni. Con una burocrazia che si muove con la grazia di una tartaruga e una comunicazione che riesce a essere tanto fumosa quanto inefficace, ci si chiede: che cosa ne sarà di questo strano, ma contemporaneamente simbolico, episodio?
In un mondo dove è facile lanciarsi in accuse e spedire messaggi di solidarietà, ma incredibilmente complicato mettere in atto interventi decorosi e preventivi, le domande si accumulano. Gli unici a guadagnarci, a quanto pare, sono gli analisti e i critici che, nel frattempo, si divertono a osservare uno spettacolo (non) esattamente degno di un grande show.
Possibili soluzioni?
Che fare? Forse si potrebbe iniziare a pensare davvero a una collaborazione tra le forze di polizia e i servizi segreti per monitorare comportamenti sospetti, invece di lasciar passare il tempo tra dichiarazioni vuote e un apparente immobilismo. Una sinergia mirata a chiarire, ad esempio, chi si nasconde davvero dietro certe azioni e quali siano le motivazioni alla base di un’anarchia che sembra prosperare più facilmente delle buone intenzioni. Ma la vera ironia è che, mentre scriviamo queste righe, rimaniamo ancora in attesa che qualcuno trovi la ricetta magica per trasformare queste idee in azioni concrete. Quindi, che ne dite? Sarebbe il caso di passare dalle parole ai fatti?Le ipotesi sull’incendio che ha colpito una struttura emblematicamente significativa riflettono tanto il mistero quanto la **confusione** delle indagini. La presenza di un possibile **custode** all’interno del complesso, che potrebbe essere stato interrogato, aggiunge un ulteriore strato di **ambiguità** a un caso avvolto nel **silenzio**. Sul piatto c’è l’ipotesi di un attacco **anarchico**; una teoria che, sebbene intrigante, rincorre le *modalità* della sua esecuzione e il suo **valore simbolico** – tant’è che si guarda sia al livello nazionale che a quello internazionale.
La Tecnologia e l’Incertezza
Ieri si è parlato di un acuto passo avanti: la polizia avrebbe già acquisito alcune immagini dal sistema di **videosorveglianza**, potenzialmente arricchite dai dati **dash-cam** di alcune auto. Queste ultime, messe a confronto con il contenuto di un server dedicato, potrebbero dare una nuova direzione alle indagini guidate dal procuratore capo Francesco Lo Voi. Ma ci si chiede: perché la tecnologia sembra sempre risolvere i casi solo a metà?
Nei prossimi giorni si prevede di assegnare consulenze tecniche per esaminare i veicoli danneggiati, ma perché non considerare un nuovo sopralluogo nel deposito come un compito immediato? La situazione è seria, eppure c’è un’»attesa» cauta per una possibile rivendicazione dei movimenti anarchici, i quali, notoriamente, appaiono online riaffermando le loro azioni a distanza di giorni, come se la **tecnologia** fosse più intransigente di un’attesa burocratica.
Le Parole del Ministro e le Contraddizioni
«Sono preoccupato, non bisogna alimentare la **cultura antagonista**», ha dichiarato il **ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso**. Eppure, la stessa persona che chiama alla cautela sembra non rendersi conto che le sue parole di minaccia rasentano il **paradosso** in un clima in cui la disinformazione esattamente non fa altro che alimentare la tensione. Sottolineando che «con la macchina della disinformazione esiste una **guerra ibrida**», il suo discorso si insinua in un mondo dove la responsabilità sembra più una scelta retorica che un imperativo etico.
Eccoci dunque, in una sorta di reality della **suspense**, dove il non detto pesa più di un annuncio ufficiale e nelle pieghe di una **comunicazione** istituzionale si insinuano **promesse** mai mantenute.
Possibili Soluzioni o Fantasmi Burocratici?
Forse la risposta risiede nel *fare*, piuttosto che nel *parlare*. Conobbi una volta un gruppo di cittadini che, armati di **determinazione** e una buona dose di ironia, decisero di ripristinare un parco abbandonato dalla lentezza dell’amministrazione. Forse, unendo forze e responsabilità, la **comunità** può trovare la chiave per restituire una dignità a un mondo che, irragionevolmente, rimane sospeso tra promesse di cambiamento e l’immobilismo istituzionale.
Dobbiamo davvero chiederci: quanto è lontano il mondo ideale proposto da certi ministri? Quante volte ci dicono di non alimentare l’ansia e il conflitto, mentre la realtà mostra l’ennesimo **fallimento** delle strutture preposte? In definitiva, la vera sfida non è solo quella di comprendere i fenomeni, ma di tradurre le parole in azioni. E su questo, a quanto pare, la palla rimane ferma.