Carlo Nordio si dimostra davvero un esempio di stile e buon gusto nel mondo della giustizia. Quando gli chiedono se ha in cantiere una norma per abolire il ricorso contro le assoluzioni, lui risponde con il garbo che lo contraddistingue:
“Sarebbe di pessimo gusto se facessi ora una norma per abolire l’impugnazione delle assoluzioni. E su tutto posso transigere meno che sul pessimo gusto.”
Come dire: certo, potrebbe sembrare un tantino sospetto farlo proprio adesso, magari per qualche interesse personale, ma no, lui il pessimo gusto non lo tollera. Peccato però che quella norma l’abbia già proposta e, udite udite, portata a casa per una lunga serie di reati sotto la giurisdizione del giudice monocratico: truffa, minacce, lesioni lievi, violazione di domicilio, molestie o disturbo alle persone, guida in stato di ebbrezza, furto. Come dire: “Tanto ben di Dio” di reati dove sembra voler risparmiare la possibilità di ricorso da parte di chi viene assolto.
L’idea originaria era più ambiziosa: estendere il divieto di ricorso a tutti i reati, esclusi solo mafia e terrorismo. Ma, per fortuna – o forse per calcolo, fate voi – si è preferito limitarsi. Arrendersi a qualche forma di decenza, almeno nelle apparenze.
Nordio insiste implacabile con la sua logica inconfutabile:
“Se la condanna deve essere data solo oltre ogni ragionevole dubbio, come si fa a condannare chi è stato assolto da giudici che quel dubbio lo hanno avuto?”
Una perla di giurisprudenza che, da sola, basterebbe a far balenare scenari a dir poco interessanti sul concetto di “ragionevole dubbio”. E ovviamente, nelle ore più calde dell’attualità, ecco l’annuncio trionfale: “La faremo.” Ma, per non smentirsi, aggiunge prontamente una precisazione che suona più come un rimedio contro l’impazienza – o forse contro chi fiuta “troppe coincidenze”:
“Non c’è alcun testo. E ora non è all’ordine del giorno. Sono contrario a norme fatte sull’onda dell’emotività. La inseriremo nel codice di procedura penale.”
Insomma, niente leggi ad personam sulle ali dell’emotività, grazie. Il tutto studiatamente rimandato a chissà quando, forse solo per l’alto senso della delicatezza istituzionale… o forse per quell’inconfondibile sapore di “Salva Salvini” che aleggia nell’aria.
Il Tsunami tra politica e magistratura
Solo un’eufemistica “burrasca” avrebbe descritto con troppo candore i rapporti tra politica e magistratura, già da tempo tesi come una corda di violino. Oggi è un vero e proprio tsunami a investire quei pochi spiragli di dialogo rimasti. La scintilla? Il processo Open Arms, con la magistratura che si è presa la briga di impugnare direttamente in Cassazione una sentenza, vietando quasi al tribunale d’appello di infilare il naso nella faccenda.
La Procura di Palermo, imperterrita, ha motivato questa scelta con un lapidario riferimento a un “errore in diritto” commesso dai giudici. Ma, attenzione, questo “errore” non richiederebbe un nuovo processo nel merito, quindi la Cassazione può tranquillamente intervenire direttamente. Uno spettacolo davvero degno di nota, un perfetto mix di efficienza… e sopraffazione burocratica.
Insomma, la giustizia italiana si conferma ancora una volta un palcoscenico dove i colpi di scena si susseguono a ritmo serrato, con un’arena che sembra più pensata per far discutere e scatenare polemiche che per garantire davvero equità e trasparenza.
Non si dica che non vi avevo avvertito: lo scontro in atto si fa rovente. Al centro della polemica, il sostituto procuratore generale Raffaele Piccirillo, appena tornato a far parlare di sé per le critiche, seppure velate, mosse al ministro Nordio sul cosiddetto «caso Almasri». Le sue osservazioni sugli «errori» del ministro hanno scatenato una reazione di scuola puerile, con il titolare del dicastero che ha evocato – non scherziamo! – gli «infermieri», come se la critica fosse una qualche forma di contagio da arginare. Il Consiglio Superiore della Magistratura, sempre pronto a dimostrarsi il paladino della libertà di opinione, ha aperto una pratica a tutela di Piccirillo, sostenendo che le idee espresse, anche da magistrati, non possono essere messe a tacere sotto un pretesto ufficiale dalla politica.
Naturalmente, l’Associazione Nazionale Magistrati fa muro a sostegno di Piccirillo. Per loro, niente di più che «opinioni scientifiche» già pubblicate su riviste giuridiche, e non banali «critiche politiche». Parole di serenità firmate da Rocco Maruotti, che evidentemente preferisce dimenticare la proverbiale tendenza della magistratura a interpretare le «opinioni scientifiche» un po’ come meglio conviene. Ah, la coerenza… Ma in via Arenula il gossip corre veloce, e non manca chi sottolinea con malizia il legame familiare che unisce Piccirillo a Federico Cafiero de Raho, ex procuratore antimafia e parlamentare M5S, ovvero: «È il cognato». Nulla di sospetto, ovviamente, solo un dettaglio insignificante che qualcuno ha voluto rendere virale nei corridoi.
Ma ecco arrivare lui, il maestro delle battute epiche: il ministro Nordio. Che non perde occasione per ribadire la sua versione dei fatti con la grazia di un giudice d’America, peccato solo che qui siamo in Italia. «Non mi indigno per le critiche personali, ma per la censura al mio comportamento attualmente sotto giudizio al tribunale dei ministri», ha tuonato. Parole pesanti come un macigno, decisamente più pesanti di quelle che si sentono in tipico «Paese anglosassone», dove già da tempo sarebbe scattata l’accusa di disprezzo della Corte. Ma qui? Qui, l’ironia del destino vuole che il primo dovere di ogni magistrato sia proprio non esporsi pubblicamente su processi ancora in corso. Uno spiacevole dettaglio sempre ricordato dalla deontologia, e – guarda un po’ – dalla legge stessa. Magari qualcuno glielo ricordi ancora.
Il teatrino dell’imparzialità e le inevitabili polemiche di partito
Insomma, cosa abbiamo qui? Un fascio di magistrati divisi tra aree ideologiche, qualche sospetto di nepotismo involontario, e un governo stressato che vede nemici ovunque, anche dove probabilmente non ci sono. Il tutto condito da accuse di censura, libertà di espressione invocata come scudo e un processo giudiziario che diventa la cartina di tornasole per un braccio di ferro politico che sembra non finire mai. L’imparzialità della giustizia? Un concetto così sottile da poter essere piegato a piacimento di chi ha interesse a farlo.
Al dunque, tra ipocrisie da palcoscenico e dichiarazioni programmatiche di chi vorrebbe difendere il sistema, sembra quasi che ci si trovi di fronte a un lavoro d’arte contemporanea: una commedia in cui i ruoli si intrecciano, si sovrappongono, e nessuno – dico nessuno – sembra davvero intenzionato a fare chiarezza sul confine tra lo Stato di diritto e la guerra politica mascherata da legalità. Sorprendente? No, solo la solita routine in salsa italiana.



