Le aziende che ingrassano il Cremlino mentre parlano di etica
Ci raccontano di sanzioni, di boicottaggi, di un Occidente unito contro l’aggressione russa. Poi scopriamo che oltre 2.200 multinazionali occidentali continuano a fare affari in Russia, garantendo a Mosca decine di miliardi di dollariin tasse. Sì, perché dal 2022 solo 500 aziende hanno chiuso davvero i battenti, mentre molte altre hanno ridotto le attività senza mai abbandonare del tutto il mercato russo.
Nestlé, Coca-Cola, Mars, Procter & Gamble, Philip Morris, Metro, L’Oréal, Sanofi, Novartis, AstraZeneca, GSK: l’elenco delle corporation ipocrite è lungo e imbarazzante. Mentre i governi occidentali si stracciano le vesti parlando di principi e valori, i loro colossi industriali continuano a finanziare il sistema russo con miliardi di dollari. E il settore bancario? Nessun problema: la Raiffeisen Bank austriaca rimane saldamente ancorata a Mosca.
Soldi, tanti soldi: il contributo delle multinazionali alle casse russe
Nel 2023, queste aziende hanno generato 197 miliardi di dollari in ricavi, con 17 miliardi di profitti e 21,6 miliardi di tasse versate direttamente nelle casse russe. Sommando il 2022, il totale delle imposte pagate dalle multinazionali occidentali in Russia ammonta a 41,6 miliardi di dollari: l’equivalente di un terzo del bilancio della difesa russo per il 2025. In pratica, una fetta consistente dei missili, dei carri armati e delle munizioni che devastano l’Ucraina è indirettamente finanziata da queste aziende.
Mars, Nestlé e Procter & Gamble sono in prima linea, con 1,5 miliardi di dollari versati solo nel 2023. Ma tra gli sponsor involontari del Cremlino troviamo anche Ferrero, Barilla e Campari, che continuano a operare senza grandi turbamenti morali.
Le aziende italiane che restano in Russia: business prima di tutto
L’Italia vanta ancora 142 aziende attive in Russia. La più redditizia? Ferrero, che incassa 740 milioni di dollariall’anno. Seguono Perfetti (270 milioni), Barilla (170 milioni) e un esercito di marchi della moda come Benetton (121 milioni), Calzedonia (400 milioni), Geox (77 milioni), Brunello Cucinelli e persino Unicredit.
E nel comparto industriale? Ci sono nomi come Marcegaglia (58 milioni di fatturato), Mapei (30 milioni e 225 dipendenti) e Smeg (40 milioni). Alcuni hanno sospeso gli investimenti, ma senza mollare il mercato: Saipem, Pirelli, Enel Green Power, Tenaris, Lavazza, Menarini.
Altri, invece, hanno avuto almeno la decenza di andarsene: Luxottica, Prada, Leonardo, Illy, Intesa Sanpaolo, Autogrill, Eni, Enel, Moncler. Ma il danno ormai è fatto.
I Paesi che alimentano l’economia russa
E l’Italia? Si piazza ottava nella vergognosa classifica dei Paesi con più aziende ancora attive in Russia. Il primo posto va agli Stati Uniti, con 795 aziende; seguono Germania (495), Regno Unito (292), Cina (260), Francia (185), Giappone (181), Svizzera (168). Chiudono la top ten Olanda (112) e Finlandia (102).
Insomma, mentre si proclamano difensori della libertà, questi Paesi permettono alle loro aziende di riempire le casse di un regime in guerra. Dov’è la coerenza?
Soluzioni? Se mai qualcuno volesse davvero fare qualcosa…
- Sanzioni vere: escludere dal mercato europeo le aziende che continuano a operare in Russia.
- Trasparenza: pubblicare ogni trimestre la lista nera delle aziende ancora attive nel Paese.
- Tassazione speciale: chi guadagna in Russia deve versare una percentuale aggiuntiva ai governi occidentali.
- Boicottaggio dei consumatori: perché dovremmo comprare da chi finanzia indirettamente un conflitto?
Ma tanto lo sappiamo: nessuno farà nulla. Il profitto vince sempre.
Titoli alternativi:
- Il grande bluff: come le multinazionali occidentali finanziano la Russia e fanno finta di nulla
- Denaro sopra la morale: le aziende che alimentano il regime russo senza vergogna
- Sanzioni? Solo sulla carta: 2.200 multinazionali occidentali continuano a operare in Russia
- Dalla cioccolata ai farmaci: