L’Europa promette di tagliare le emissioni del 90% entro il 2040 per non perdere la corona della competitività—buona fortuna con quella!

L’Europa promette di tagliare le emissioni del 90% entro il 2040 per non perdere la corona della competitività—buona fortuna con quella!

Finalmente, l’Unione Europea ha raggiunto un accordo legalmente vincolante per tagliare le emissioni del 90% entro il 2040. Peccato che, allo stesso tempo, rinvii il tanto decantato sistema di scambio delle emissioni che doveva essere cruciale. Un vero capolavoro di coerenza politica!

Il Parlamento Europeo e gli Stati membri hanno raggiunto questa “proposta provvisoria” durante una delle classiche notti insonni di Bruxelles. Il 90% di riduzione entro il 2040? Ovviamente, presentato come un impegno solido e irrinunciabile. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato con dovizia di termini trionfanti che ora si è passati dalle chiacchiere ai fatti, proprio un mese dopo la COP30. Ovviamente l’accordo sarebbe un “piano pragmatico e flessibile” per rendere la transizione green più competitiva. Tradotto: sacrifici sì, ma con stile e possibilità di fare ancora qualche affarucolo.

Meglio comunque applaudire la “natura vincolante” dell’impegno, che a detta di Hortense Bioy di Morningstar Sustainalytics, cementerebbe l’ambizione tutta europea di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Tutto ciò mentre i leader mondiali si radunavano ai margini della foresta amazzonica brasiliana per la trentesima COP, dove, con grande gusto del compromesso, si è spinto per aumentare i finanziamenti climatici ai paesi in via di sviluppo, ma senza mai nominare i fossili. Intanto, nessun delegato ufficiale degli Stati Uniti si è presentato, uno scenario veramente eccezionale. Evidentemente sono troppo impegnati a ignorare i cambiamenti climatici dopo che il loro presidente quest’anno ha ritirato l’America dall’Accordo di Parigi.

Louis Fearn di Jaguar Land Rover, ovviamente entusiasta, ha detto a CNBC che questo “garantisce la certezza a lungo termine di cui gli investitori hanno bisogno” per continuare a mettere soldi nelle tecnologie a zero emissioni. Insomma, l’Europa sarebbe pronta a diventare il leader mondiale mentre gli altri si ritirano. La realtà è molto più complicata, ma la narrazione dev’essere positiva comunque.

Secondo Fearn, l’obiettivo 2040 accelererà l’innovazione nelle catene di approvvigionamento cruciali, grazie a una visibilità nitida sulle regolamentazioni future. Non solo: con “certezza normativa” e l’impegno europeo a mantenere la competitività, le startup hanno il terreno ideale per prosperare, soprattutto quelle che promettono emissioni più basse con performance migliori a costi inferiori. Sembra quasi una fiera di promesse…

Bastian Gierull di Octopus Energy Germany, altra stella dei rinnovabili, si affretta a ricordare che proteggere il clima non è un peso ma un “investimento strategico”. Che questa visione sia condivisa o meno, il coro si unisce: lotta al cambiamento climatico uguale crescita economica indipendenza, posti di lavoro e innovazione. Una favola, certo, ma deliziosa.

Mercato delle emissioni: slittamenti e contraddizioni

Nel gran finale dell’accordo, spicca la chicca del rinvio di un anno per l’applicazione dell’EU Emissions Trading System 2 (ETS2), quello nuovo che avrebbe dovuto coinvolgere edifici, trasporti su strada e piccole industrie. Originariamente previsto per il 2027, ora sarà realtà solo nel 2028. Nel frattempo, il monitoraggio e il reporting, obbligatori per quest’anno, restano immutati, chissà perché.

Ma attenzione, avverte Craig Douglas di World Fund, firma del venture capital che scommette sulle startup green: qualsiasi ritardo “sarebbe un grave problema”, perché questa legislazione è fondamentale per la decarbonizzazione, e gli investimenti stanno già puntando su questa base. Un rinvio o un cambiamento troppo drastico potrebbe rallentare tutto il processo e mettere a repentaglio le decisioni già prese. Fantastico sapere che i giochi sono pianificati a tavolino, ma chi dissente è un guastafeste.

Douglas consiglia quindi una strategia equilibrata per mantenere bassi i costi di decarbonizzazione, “spostandosi tra settori” e includendo crediti di carbonio. Già, perché nel frattempo si parla di un certo uso dei crediti come bacchetta magica per compensare emissioni, una soluzione pratica per mantenere le apparenze senza intaccare troppo chi inquina davvero.

anidride carbonica miracolosamente rimossa dall’atmosfera. Quale sciocchezza sarebbe pensare che si possa semplicemente eliminarla così, senza qualche trucco! L’Unione Europea ha deciso di essere magnanima, consentendo l’utilizzo di quelli che definisce “crediti internazionali di alta qualità” per raggiungere il tanto agognato obiettivo di riduzione netta, ma con la limitazione di appena il 5%. Il resto? Ovviamente, dovrà arrivare dalle rimozioni domestiche, perché nulla urla integrità più di un’abbronzatura locale del problema.

Il ricorso ai crediti di carbonio da parte delle aziende, da sempre, è stato un paradiso per i malintenzionati, infestato da scandali a ripetizione che hanno smascherato la loro totale inutilità nel rappresentare reali riduzioni delle emissioni. Fortunatamente, il mercato sembra essersi svegliato dal suo torpore e ora punta tutto sulla qualità e sulla affidabilità. Come se bastasse qualche certificato brillante a cancellare decenni di follie verdi.

Parole di Bioy: l’introduzione di questi crediti “sottolinea l’urgente necessità di accelerare lo sviluppo e l’espansione di questo mercato.” Ah, la fretta di dimostrare che tutto si risolve comprando certificati!

Magnus Drewelies, CEO della piattaforma di scambio di crediti di carbonio Ceezer, traduce invece il messaggio in tre semplici punti: il net zero (zero netto) ha bisogno di flessibilità – niente di più utile per nascondere le scorciatoie –, l’Unione Europea sarà inflessibile sulla qualità dei crediti – perché ci piace dare lezioni con rigidità ideologica – e, malgrado tutto, è pronta a supportare l’azione climatica globale acquistando crediti internazionali.

Il CEO non si trattiene:

“L’integrazione di fino al 5% di crediti internazionali può sostenere finanziariamente gli sforzi globali di mitigazione climatica— ma in realtà rappresenta un espediente per abbassare il costo dell’obiettivo climatico, dato che i crediti internazionali sono costantemente più economici.”

Maggior chiarezza? Neanche per sogno. La vera efficacia resta da vedere, perché la qualità reale e il rischio dei crediti di carbonio sono cose tanto complicate quanto avvolte nel mistero. Né l’UE né l’Accordo di Parigi offrono alcun criterio concreto basato su metriche per garantire che gli investimenti si traducano in un impatto climatico affidabile. Ovvero, più spende, meno sa davvero cosa ottiene.

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