L’Arabia Saudita scopre che gli ambasciatori dei dati sono l’ultima frontiera del controllo sovrano sull’intelligenza artificiale

L’Arabia Saudita scopre che gli ambasciatori dei dati sono l’ultima frontiera del controllo sovrano sull’intelligenza artificiale

Nel frenetico inseguimento di ogni Stato nel costruire data center nazionali per sedurre l’Intelligenza Artificiale sovrana, Arabia Saudita sfodera una trovata tutto sommato originale: le ambasciate dei dati. Sì, avete capito bene. Un’“ambasciata dei dati” è quel luogo in cui le informazioni vengono depositate oltre i confini fisici di un Paese, ma – attenzione – governate dalle sue leggi, proprio come una vera ambasciata diplomatica. Geniale nella sua assurdità, vero?

L’idea non è una novelty assoluta: la prima ambasciata dei dati è stata istituita da Estonia nel 2017, seguita solo da un’altra – e indovinate un po’? – Monaco, entrambe collocate in Lussemburgo. Questi bunker tecnologici sono una sorta di salvadanaio di backup delle informazioni critiche nazionali, pensati come uno scudo contro cyberattacchi e cambiamenti climatici. In pratica, un salvagente digitale per dalemania autorale.

Ora, mentre l’AI galoppa verso l’infinito e oltre, questa formula potrebbe diventare la soluzione per costruire data center all’estero – dove l’energia, vero tallone d’Achille europeo, abbonda – pur restando sotto le leggi di chi ha partorito il codice. Tradotto: non vi serve farvi venire l’emicrania su cosa succede dentro i vostri confini perché potete semplicemente conservarci i dati “fuori” ma legalmente dentro. Pazzesco ma vero.

Arabia Saudita, raffinata concorrente nella corsa globale, punta decisamente su questa carta per trasformarsi in esportatore di dati anziché di petrolio. Peccato che la promessa di energia solare sia un filo sinfonica: le risorse idriche indispensabili per raffreddare quei megadati terminali scarseggiano clamorosamente. Ma chi se ne cura, quando c’è da sfidare i vicini per conquistare il titolo di hub AI mediorientale? Il miraggio di nuovi capitali e talenti spinge investitori e giganti tech a volgere lo sguardo verso questo mercato fiorente, inaugurando un potenziale cambio di potere globale.

Un mosaico internazionale di accordi e fiducia

Far funzionare queste ambasciate digitali non è roba da poco, anzi. Servono accordi internazionali a doppio senso per stabilire giurisdizione e regole, e attualmente non esiste un quadro giuridico che tenga il passo. Viktor Mayer-Schönberger, guru delle regole internet all’Università di Oxford, ci spiega l’ovvio: il paese che ospita e quello ospitato devono promettersi di non fregarsi i dati a vicenda. Insomma, serve fiducia. Sì, proprio quella che manca in tempo di sovranismi informatici.

Ma Arabia Saudita ci crede e vuole essere il primo membro del G20 a impiantare un sistema del genere. Con la sua bozza di legge sul Global AI Hub, da aprile propone tre livelli di ambasciate dati, che vanno da un’autonomia totale del paese “ospite” a una strana mescolanza di protezioni legali in cui i tribunali sauditi potrebbero persino “aiutare” quelli stranieri. Un compromesso da Nobel della confusione internazionale.

Naturalmente questa manovra ha più un gusto geopolitico che tecnico: Riyadh si avvicina sempre più a Washington e con gli USA ha stretto un “Partenariato Strategico sull’Intelligenza Artificiale”, con tanto di obiettivi ambiziosi sull’infrastruttura. Che però non tradisce il fatto che gli States restino piuttosto riluttanti a farsi carico di troppa trasparenza quando si parla di dati “sensibili”.

Mayer-Schönberger sugli intrecci tra dati e politica allarga ulteriormente la sua ironia: sul caso ByteDance e TikTok, dove gli USA temono che Pechino sfrutti i dati dei loro cittadini per influenzare le elezioni del 2024, ci vuole giusto un trattato diplomatico super complicato. E più il tempo passa, più la diffidenza rende improbabile che gli Stati Uniti si fidino davvero di una porta chiusa dalla Cina. In pratica: missione quasi impossibile.

Nel frattempo, i colossi della tecnologia come Google e Microsoft si fanno un giro sulle spalle degli Stati europei, offrendo data center locali con strutture di governance fatte apposta per serrare le porte ai tentativi di accesso governativo americano. Ma se tutto ciò proteggerà davvero i dati resta una bella domanda aperta e, per ora, uno scherzo da salotto digitale.

Sovranità dei dati: problema ben più complesso di un hashtag

Tra la grande ritirata della globalizzazione e una riscoperta ossessiva della sicurezza nazionale e competitività, la sovranità dei dati si è messa al centro dell’arena. Peccato che, come spesso accade, di chiarezza ce n’è poca. Così come poco definito è il concetto stesso di sovranità, quello che dovrebbe dare anima e forma alle regolamentazioni future.

Nathalie Barrera, responsabile privacy e regolamentazioni dati per la regione EMEA di un importante colosso tecnologico, sintetizza l’assurdità del dibattito:

“Tutti ne parlano, nessuno si è preso la briga di definire cosa sia realmente la sovranità, e questo fa sì che la sovranità per Francia sia una cosa, mentre per Spagna un’altra.”

D’altra parte, se neanche i protagonisti del mercato riescono ad accordarsi su ciò che significa sovranità, buon divertimento a chi pensa di poter costruire ambasciate digitali funzionanti e politicamente affidabili. Il futuro delle infrastrutture AI, insomma, somiglia sempre più a un tetris globale di regole fatte a pezzetti, giusto per mantenere l’illusione del controllo mentre il caos digitale avanza spietato.

In un mondo dove la privacy è ormai solo un elegante ricordo dei tempi passati, Palo Alto Networks ci regala una lezione di alta botta di realismo. Gli utenti della loro rete sembrano preoccuparsi di tre piccole quisquilie: autonomia (tradotto: protezione dei dati, capire chi ci mette le mani sopra e mantenere il controllo), resilienza digitale per evitare blackout e, infine, l’accesso ai dati da parte di governi stranieri. Insomma, roba da poco, no?

Barrera, la santa profetessa della sicurezza digitale, inserisce le cosiddette “data embassy” nella seconda categoria, facendo riferimento a contesti esotici come quelli di Estonia e Monaco. A suo dire, queste ambasciate di dati non sono altro che un’appendice del famigerato GDPR che, come chiunque sappia leggere tra le righe, impone la sovranità europea anche sui dati ospitati in terra estranea.

Macbeth dei tempi moderni, Barrera ci spiega con sguardo angelico che sotto questo nome altisonante si nasconde semplicemente un’opzione offerta ai governi per custodire carrellate di dati ultrasensibili: informazioni fiscali, di salute, e amministrative su cittadini e dipendenti statali. Insomma, roba intoccabile, come se qualcuno nel frattempo non avesse già il pass per spulciare a piacimento.

E che dire di Arabia Saudita, nuovo paradiso fiscale dei data center? Se le spese di terreno e energia vi facevano paura, tranquillizzatevi: qui tutto costa molto meno. Inoltre, si trova in un incrocio strategico tra Europa, Medio Oriente e Asia, il che la rende un’amica preziosa per chi voglia mettere in salvo i propri dati dal fastidioso abbraccio di una tariffa europea.

Hortense Bioy, custode degli investimenti sostenibili a Morningstar Sustainalytics, ci concede la sua perla di saggezza: ha senso se il costo di un data center in Arabia Saudita è inferiore a quello di paesi “più bisognosi”. Che gesto magnanimo, davvero.

Naturalmente, come in ogni favola che si rispetti, spuntano le ombre della cosiddetta ESG – quella roba con cui i benpensanti parlano quando vogliono sentirsi a posto con la coscienza. Sì, i nuovi data center fanno discutibilmente molto rumore in termini di emissioni di carbonio e consumo d’acqua, due dettagli trascurabili quando si tratta di “sovranità dei dati”.

È vero, il sole splende in questo bel deserto, ma la rete elettrica locale è più fossil-fuled che una vecchia nave a vapore: la maggior parte dell’energia saudita, ben il 64% del totale nel 2023 secondo l’International Energy Agency, arriva dal petrolio. Alla fine, sembra proprio che i veri costi nascosti di questa “sovranità digitale” siano ben altro che una semplice questione di bilancio.

La grande illusione delle ambasciate digitali

Ma non illudetevi troppo: Tim Mayer-Schönberger, quel pizzico di realismo che manca sempre, ci avvisa sarcastico che non vedremo le ambasciate digitali spiccare il volo come il mito vorrebbe. Lo stato nazionale, quel dinosauro ormai mezzo fossilizzato, resta ancora sorprendentemente potente, mentre la globalizzazione – che pure doveva farci tutti amici digitali – pare qualcosa di tramontato.