La storia dell’energia nucleare è nata in Gran Bretagna, ma il futuro sarà altrettanto britannico?

La storia dell’energia nucleare è nata in Gran Bretagna, ma il futuro sarà altrettanto britannico?

Ah, Regno Unito, la culla dell’energia nucleare commerciale, che ora si diletta a produrre solo una misera frazione della sua elettricità dall’atomo. Ricordate quando vantava più centrali nucleari di Stati Uniti, URSS e Francia messi insieme? Quei tempi gloriosi sono ormai una pagina di storia, visto che l’ultima centrale inaugurata risale al 1995 con Sizewell B. Da allora? Silenzio. Ma non temete, ora si sta investendo (con una certa lentezza) per tornare a essere protagonisti, anche se al momento il Regno Unito detiene l’ambitissimo titolo di luogo più caro al mondo per costruire impianti nucleari. Un record mica da ridere.

Nel 2023, l’energia nucleare ha coperto appena il 14% del fabbisogno elettrico britannico, un risultato così modesto da far sembrare Francia, con il suo 65%, un gigante moderno. La sfida per il 2050 è ambiziosa: raggiungere un quarto della produzione energetica nazionale grazie al nucleare. Un progetto seducente, perché questa fonte è “pulita” (beh, almeno a carbonio ridotto) e continua, ideale per sostenere le rinnovabili, così intermittenti e un po’ capricciose.

Doreen Abeysundra, fondatrice della consulenza Fresco Cleantech, sottolinea un “chiaro slancio” in atto, alimentato anche dalle tensioni geopolitiche che hanno risvegliato l’interesse per la sicurezza e l’indipendenza energetica.

Tuttavia, la sostanza amara arriva dal Nuclear Regulatory Taskforce: “fallimenti sistemici” nel quadro regolatorio nucleare britannico che sembrano più una commedia degli errori. Regolamentazioni frammentate, leggi demodé e incentivi praticamente inesistenti hanno trascinato il Regno Unito dietro agli altri giganti nucleari. Il governo, in risposta, ha promesso riforme immediate e un piano adottato entro tre mesi. Non vorremmo che si perdesse altro tempo prezioso…

Grandi progetti o piccoli esperimenti? La scommessa nucleare britannica

La strategia britannica? Non puntare tutto su un solo cavallo, no no. Si investe sia nei classici reattori di grandi dimensioni sia nelle novità dei small modular reactors (SMR), piccoli reattori modulabili e—come dire—“fabbricabili in serie” in un impianto industriale. La britannica Rolls-Royce è stata scelta come partner preferito per questa rivoluzione in miniatura. Questi SMR vantano tecniche di raffreddamento passivo, che gli addetti ai lavori sembrano adorare perché li renderebbero più sicuri e meno costosi. Chi non ama risparmiare qualche spicciolo e dormire sonni tranquilli?

Naturalmente, il nucleare britannico ha i suoi peccati originali: ricordi la centrale Windscale? Dal 1957 detiene il primato negativo di peggior incidente nucleare nel paese, quando un reattore fece un incendio e verse nell’atmosfera una bella dose di materiali radioattivi. A che pro? Sembra che il Regno Unito volesse produrre trizio per bombe nucleari, quale miglior scusa? Il tutto sacrificando la robustezza dell’impianto al “maggior rendimento”. Shakespeare ne sarebbe fiero.

Per fortuna, i nuovi SMR adottano la solita tecnologia “easy to use” della luce d’acqua, giocandola semplice e collaudata, un po’ come il futuro Sizewell C, solo più compatto. Ma ci sono anche modelli “avanzati” che provano innovazioni audaci come nuovi refrigeranti o solventi. Ovviamente, è ancora tutto un esperimento.

La prima centrale SMR britannica sorgerà a Wylfa, in Galles, ma non aspettatevi una data precisa per la sua chiusura: “Quando sarà pronta?”, la domanda resta aperta. Si parla di tre SMR iniziali con l’ambizione di espandersi, un piano tanto entusiasmante quanto nebuloso.

Settembre ha visto un accordo transatlantico con gli Stati Uniti, finalizzato a rafforzare la cooperazione commerciale nel nucleare e ad accelerare le autorizzazioni per la costruzione di impianti da entrambe le parti dell’Atlantico. Qualcuno spera che funzioni meglio di quanto finora abbia fatto.

Ma Ludovico, esperto del settore, scherza amaramente: “Ad oggi, nessun SMR in giro per il mondo produce elettricità degna di nota sul mercato; tutte queste belle promesse si vedranno, se va bene, negli anni ’30.” Una vecchia canzone nucleare, insomma: tanto rumore per nulla, se non per le bollette di domani.

Massimo Cappelli, portfolio manager della Listed Infrastructure presso Van Lanschot Kempen, ha rilasciato una dichiarazione che fa riflettere, anche se probabilmente provoca più ansia che conforto. Secondo lui, gli SMR (Small Modular Reactors) sono senza dubbio una rivoluzione, in grado di alimentare singole fabbriche o piccoli paesi, una prospettiva quasi da fantascienza per chi è abituato ai soliti impianti mastodontici. Peccato però che questi piccoli gioielli della tecnologia siano ancora lontanissimi dall’essere operativi su larga scala. Insomma, un gioco da ragazzi… se i “ragazzi” avessero il dono dell’ubiquità e della celerità.

Dall’angolo un po’ più cinico, Paul Jackson, stratega globale di mercato EMEA di Invesco, puntualizza che per garantire un carico baseload affidabile e compensare l’intermittenza delle rinnovabili, la soluzione continua a essere quella dei “soliti” grandi impianti. Sì, esattamente, quei giganti storici dai costi e dai tempi di realizzazione che fanno rimpiangere i bei tempi in cui le cose si facevano con più rapidità e meno burocrazia.

Jackson, che evidentemente si è bevuto qualche bicchiere di realismo, ammette che gli SMR probabilmente hanno un ruolo da giocare, dato che possono essere più agili e flessibili. Peccato che la loro diffusione sia roba da “quando i pesci voleranno”: un’utopia nel breve termine. E per quanto riguarda il Regno Unito, Jackson porta il colpo finale alla proverbiale ambizione britannica di diventare un leader nucleare, ricordando che Francia e Cina hanno già fatto passi da gigante, lasciando indietro la perfida Albione.

Nel frattempo, l’orgoglioso ente governativo britannico Great British Energy-Nuclear continua a cercare siti dove piazzare nuovi impianti di grandi dimensioni, avendo già messo le mani su uno a Gloucestershire, nell’ovest del paese, oltre che su un altro sito in Galles. Inutile dire che la retorica ufficiale parla di “ribaltare un’eredità di mancate innovazioni nel nucleare per entrare in un’epoca d’oro, con migliaia di posti di lavoro altamente specializzati e miliardi di investimenti in ballo”. Solo che la struttura di «epoca d’oro» pare più una commedia degli equivoci che un piano strategico.

Citano con orgoglio che Sizewell C dovrebbe fornire energia pulita per sei milioni di case per almeno sessant’anni, mentre i primi SMR britannici a Wylfa alimenteranno due milioni e mezzo di abitazioni, migliorando così la “sicurezza energetica”. Ovviamente, tutto suona incredibilmente rassicurante, se non fosse che di tempo ne è passato e i cantieri sono in ritardo, i costi lievitano e la “sicurezza” sembra più un naufragio annunciato.

Innovazioni finanziarie degne di nota (o quasi)

Ma adesso, come non bastasse il paradosso temporale, il Regno Unito può vantare una vera e propria “rivoluzione” nel modello di finanziamento dei mega progetti nucleari. Originale, no? Niente più solo la solita spesa diretta statale: ecco spuntare il “Contract for Differences” (CfD). Questo meccanismo garantisce un prezzo fisso per l’elettricità prodotta, così che gli investitori si sentano un po’ più sicuri sapendo che – malgrado ritardi e sforamenti – il loro portafoglio non affonderà nel mare degli imprevisti.

Il paladino di questa epopea, l’impianto di Hinkley Point C, inizialmente stimato in “soli” 18 miliardi di sterline, ha già visto il conto salire lentamente ma inesorabilmente. Cappelli sottolinea: si risolve il problema del rischio prezzo, ma quello dei ritardi è ancora lì, magnificamente irrisolto grazie a una saetta chiamata Regulated Asset Base (RAB). Tradotto, gli investitori hanno la bellezza di ricevere pago dalla prima sterlina investita, non da quando la centrale entra effettivamente in funzione. Uno spettacolo di equità per chi spera in ritorni eccezionalmente differiti nel tempo.

E mentre i prezzi da capogiro spaventano più di un film horror, gli investitori cominciano a scommettere sul nucleare di “prossima generazione” come antidoto al fabbisogno energetico esploso grazie all’intelligenza artificiale. E così spuntano decine di startup più o meno giovani che sperano di realizzare qualcosa, o almeno di sembrare innovatori credibili.

Tra i protagonisti più citati c’è Oklo, azienda statunitense quotatasi in borsa tramite un SPAC fondato da Sam Altman, la mente da cui è nato OpenAI. Nel Regno Unito, il campione degli SMR avanzati, Newcleo, ha deciso di spostare la sua sede da Londra a Parigi, forse nel tentativo disperato di migliorare le chance europee. All’inizio prometteva di far partire un reattore commerciale nel Regno Unito entro il 2033, ora ha un po’ ridimensionato le sue ambizioni sulla sponda britannica.

Nel frattempo, altre società come Tokamak Energy e First Light Fusion, entrambe britanniche, si dedicano alla fusione nucleare, stessa tecnologia futuristica di cui si parla da decenni ma ancora relegata ai laboratori. Mentre tutto oggi si basa sulla fissione, ovvero lo spaccare atomi, si spera che la fusione, ovvero farli “incollare”, sia la panacea definitiva. Nel giugno scorso il governo britannico ha annunciato 2,5 miliardi di sterline per un prototipo di fusione che sarà il primo al mondo, perché se bisogna prendere tempo, facciamolo con stile…

Il vero problema: la mancanza di cervelli

Dietro la scenografia di spese altisonanti, dichiarazioni roboanti e impianti faraonici si cela l’ostacolo più banale e al tempo stesso critico: il talento. Il Regno Unito, pur vantando università di fama mondiale e un bagaglio tecnico notevole, sembra scontare una mancanza di competenze pratiche adeguate. Cappelli ironizza sul fatto che si abbia molta “conoscenza da libro”, ma poca capacità reale di accelerare i progetti senza incorrere in altri drammi degni di un episodio di una soap opera.

In definitiva, la favola del nucleare come salvatore energetico su scala mondiale resta tentatrice, ma le ombre sul piano britannico sono lunghissime, per usare un eufemismo. Gli SMR possono aspettare, i megaprogetti sono campioni di overbudget, i talenti si fanno desiderare, e intanto l’universo delle energie rinnovabili continua a ballare da solo, sempre più veloce e senza padrone.

Che cosa ci serve davvero? Competenza sul campo, una roba quasi obsoleta per il Regno Unito, visto che non si pratica da secoli – tanto per citare Cappelli. La verità, disse lui, è che probabilmente siamo a corto di esperienza pratica perché semplicemente non la facciamo da tantissimo tempo. Che scoperta rivoluzionaria!

Secondo Abeysundra, però, c’è un settore dove il Regno Unito spicca veramente: la sua mentalità. Ecco, finalmente un po’ di sana autocoscienza. “C’è una tale quantità di conoscenza, innovazione e quell’indomabile spirito d’iniziativa che altrove si vede con il binocolo”, ha spiegato lei, citando a raffica il ruolo pionieristico del Regno Unito nella Rivoluzione Industriale e, ovviamente, nella creazione dell’energia eolica offshore. Davvero un peccato che tutto questo slancio si sia evoluto a suon di pasticci e ritardi cronici.

Per non farsi mancare nulla, il governo britannico ha etichettato l’energia nucleare come un caposaldo del futuro impiego “pulito” nel suo folgorante Clean Energy Jobs Plan dello scorso ottobre. Mentre il piano nazionale per le competenze nucleari del 2024 punta dritto su apprendistati, dottorati e riqualificazioni in corso. Sì, perché nulla dice “rivoluzione energetica” come trasformare i lavoratori di petrolio e gas in eroi verdi grazie all’Energy Skills Passport, una trovata degna di applausi e qualche occhio al portafogli.

Una catena di fornitura… da brividi

Ma ora veniamo al piatto forte: la ragnatela incasinata della catena di approvvigionamento. Uranio, quel combustibile magico per far scoppiare la reazione nucleare, è monopolio di quattro soli paesi. Sì, tra cui la amatissima Russia. Secondo la World Nuclear Association, la domanda globale potrebbe schizzare verso l’alto di un terzo entro il 2030 e più che raddoppiare nel 2040. Bravi, un bel modo per aumentare la dipendenza dai pochi fortunati detentori del giocattolo.

Il governo del Regno Unito ha deciso di spendere quattrini per rafforzare questa fragile catena e, ciliegina sulla torta, ha promesso di smettere di importare combustibile nucleare dalla Russia entro il 2028. Il combustibile destinato a Sizewell C verrà quindi da fornitori europei o “occidentali”, giusto per non perdere la buona abitudine delle complicazioni globali, spiega Cappelli.

Però il caro Cappelli ci fa notare un dettaglio non da poco: quanto è davvero sicura questa energia nucleare? “Dobbiamo costruire centrali, ma prima dobbiamo costruire la filiera del valore”, ha aggiunto non senza sarcasmo. Lavoratori, competenze e finanziamenti sono essenziali, ma senza una supply chain solida si rischia il déjà vu dei fastidiosi guai del gas, con la solita dipendenza da un solo fornitore. Solo che ora, invece del gas, sarà l’uranio il nostro grande tallone d’Achille.

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