Con una sceneggiata degna delle migliori soap opera geopolitiche, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato trionfante che la “questione delle terre rare è stata risolta” dopo un incontro definito “straordinario” con il leader cinese Xi Jinping in Corea del Sud. Peccato che la realtà abbia deciso di ridimensionare un po’ il copione.
Le azioni delle società minerarie americane specializzate in terre rare hanno dunque fatto un piccolo balletto di rialzi: +7% per Critical Metals, +6% per USA Rare Earth, +3% per Energy Fuels, e anche MP Materials e NioCorp Developments si sono concesse un pittoresco +3%. Un vero e proprio spettacolo pre-mercato, roba da far invidia a ogni telenovela.
Tutto ciò è avvenuto immediatamente dopo che Trump ha sventolato la sua vittoria politica, annunciando al mondo con la solita fanfara che Pechino avrebbe rinviato di un anno l’entrata in vigore di nuove restrizioni all’export di terre rare. Sentimentalismo politico? Basta vedere che, pur con questo rinvio, le restrizioni precedenti, quelle annunciate a inizio aprile, restano dure e intatte, come i peggiori debiti da pagare a fine mese.
Da Pechino era arrivata la minaccia, il 9 ottobre, di irrigidire i controlli su queste materie prime tanto rare quanto strategiche, motivando tale stretta con la necessità di prevenire l’“uso improprio” delle terre rare, in particolare nel settore militare e in altri ambiti sensibili. Già, perché non vorremmo mica che l’auto elettrica fosse alimentata da magneti cinesi, no?
Per i pochi distratti, le terre rare sono 17 elementi della tavola periodica con proprietà magnetiche così speciali da essere praticamente indispensabili nell’automotive, nella robotica e, ovviamente, nella difesa. E indovinate un po’? La Cina detiene il monopolio quasi assoluto: produce circa il 70% delle forniture mondiali e ne lavora quasi il 90%. Questo significa che i preziosi minerali vengono estratti altrove ma, come in un maldestro gioco di prestigio, vengono processati lì, in Cina. Una raffinata strategia commerciale, o un gigantesco ricatto economico? Decidete voi.
La grande illusione del rinvio
Il rinvio di un anno sull’introduzione di ulteriori controlli non è altro che un gesto di cortesia diplomatico, una sorta di “adesso ti do un anno di tempo ma tu stai buono”. Nel frattempo, le restrizioni già in vigore sono lì a ricordare che Pechino non ha nessuna intenzione di mollare la presa sulle proprie risorse strategiche. A ulteriori limitazioni non si sfugge, solo che farle partire più tardi dà una parvenza di distensione – nulla più.
Trump ha candidamente ammesso che l’amministrazione americana si aspetta che questa sospensione sia “routinely extended”, ovvero semplicemente prorogata a oltranza. Tradotto in italiano corrente: faremo finta di negoziare mentre la Cina tiene il coltello dalla parte del manico. E intanto tutto il mondo si agita nel tentativo di afferrarne le mosse, sottolineando quanto sia insensato affidare le nostre tecnologie più avanzate a un solo fornitore geopolitico così dominante.
Strategia o ipocrisia strategica?
Le autorità americane, in un misto di allarme e realismo, hanno più volte sottolineato come questa dipendenza dalle risorse cinesi rappresenti una sfida strategica enorme proprio in un’epoca di transizione verso energie più sostenibili. Ma evidentemente questo messaggio non basta, o forse non si vuole davvero affrontare la questione perché mettere in piedi una catena di approvvigionamento alternativa è più complicato che fare belle dichiarazioni sui social.
Insomma, mentre il mondo si illude di vedere una tregua nelle restrizioni taipei-cino-americane, la partita rimane la stessa: chi ha il controllo delle terre rare, controlla anche il futuro tecnologico. E per ora quella palla è in mano a Pechino, che con un sorriso sornione e qualche ritocco alle politiche di export tiene tutti sull’attenti, in attesa del prossimo capitolo di questa saga globale.



