Ivano Dionigi, il latinista dei Papi, rivela che Francesco twittava in latino ma è stato Ratzinger a fare il vero salto. E nel frattempo, un rosario consegnato a mio nipote fa capolino tra le curiosità papali.

Ivano Dionigi, il latinista dei Papi, rivela che Francesco twittava in latino ma è stato Ratzinger a fare il vero salto. E nel frattempo, un rosario consegnato a mio nipote fa capolino tra le curiosità papali.

Ivano Dionigi, professore emerito dell’Alma Mater e già rettore, non può trattenere la sua ammirazione per i riconoscimenti papali che adornano il suo studio. Già, perché in un mondo dove il valore di un pezzo di carta può definirti, lui ha appeso proprio quelle nomine che parlano più di altri che di lui: firmate da Benedetto XVI e da papa Francesco. Ovviamente, il suo curriculum non è da meno; è stato il latinista ufficiale di ben due Papi. Che onore! Per dieci anni, ha presieduto la Pontificia Accademia di Latinità, una posizione che ha conquistato grazie a Benedetto XVI e che ha visto confermata dal grande riformatore Francesco. E non finisce qui, perché Bergoglio lo ha nominato anche consultore del Pontificio Consiglio della Cultura. E pensare che l’accademico non ha nemmeno bisogno di un titolo nobiliare per sentirsi a proprio agio nel sacro palazzo!

Ma come ci è finito in Vaticano? Ah, una storia kitsch, come piace a noi. Tutto parte dal cardinale Ravasi, che presiede il Pontificio Consiglio della Cultura. Noto per la sua capacità di creare nomi altisonanti, ha battezzato la sua creatura come “ministro della Cultura”. Già immagino Ravasi mentre annuncia: “Ecco a voi la nostra accademia del latino! Chi ha dei curricula, lo tiri fuori!”. Il suo? Certo, perché è stato scelto fra i tanti. Non si può dire che Ratzinger non avesse buone intenzioni quando si preoccupava se il rettore avesse tempo a sufficienza per il compito, né che conoscesse la realtà delle università italiane. Che idea originale, eh!

Passiamo a Francesco. La prima volta che Dionigi e lui si sono incontrati, era il dicembre del 2017, e il nostro eroe di Bologna era già stato in visita. Tra un commento e l’altro sul suo discorso a San Domenico, certo non c’era niente di più importante da trattare… Magari un’intervista sui suoi gusti culinari? Forse un ragu. Ad ogni modo, a quanto pare, non è stato un incontro che passerà alla storia, ma solo un altro tassello nel puzzle del suo curriculum brillante.

Parliamo dell’ultima volta: lo scorso novembre. In un’atmosfera di grande pompa, Dionigi ha alloggiato a Santa Marta. Naturalmente, aspettare l’udienza con il Papa è diventato un hobby; Francesco, che doveva arrivare alle nove (già, che efficienza), ha ritardato per un paio d’ore a causa di una udienza con la moglie di Zelensky. C’è sempre un po’ di trambusto a corte, non credete? Che vita intensa e frenetica devono avere quei preti con mille impegni!

Ma come è andata l’udienza? Nemmeno a dirlo: Francesco ha fatto un regalo, una Corona del Rosario, che Dionigi ha prontamente girato al nipotino. Che gesto affettuoso! Devo dire che i nipotini di rigore debbono essere famosi, considerati gli alti ranghi dei loro nonni. Ma, lo sapete, il vero colpo di teatro arriva dopo: quando Dionigi ha ricevuto la notizia della morte del Papa, è scattato come un ghepardo e ha chiesto di lui. Che cuore! Avete mai visto un’accademia così emotiva? Ah, questi legami familiari!

Però, su, parliamo un attimo del suo ruolo nel sacro palazzo. Che mistero avvolge l’importanza del latino a lungo dimenticata! Fino al Concilio Vaticano II, il latino era **la** lingua della Chiesa. Immaginate, una lingua che ha resistito ai secoli e ora è ritornata come un arcano: non lasciatelo tradurre da Lutero, eh. Volete un testo sacro in volgare? Ma che idea stramba! In fondo, il latino è pur sempre la lingua della reverenza e quale migliore modo di mantenerla viva se non attraverso illustri nomi come Dionigi? Che opportunità sprecata non aver potuto studiare il latino con lui! Sarà pur vero che l’eleganza di un linguaggio può camuffare le contraddizioni… Un saluto a Francesco, l’inseguitore di tutti quelli che hanno finito in un limbo linguistico!

Ah, il latino, la lingua morta che continua a risuonare nei corridoi della Chiesa! Fin dai tempi antichi, la sacrale lingua di Roma ha sempre avuto un fascino mistico. Come se il fatto che tu non possa comprenderla le conferisse un’aura di sacralità. Si pensava che se non dicevi la messa in latino, beh, allora ti scomunicavano, giusto per essere chiari: la lingua di quei padri è universale e immutabile, proprio come la fede stessa. Un po’ come il mistero che circonda il tuo vicino di casa: non capisci un accidente di lui, eppure continua a suscitare il tuo interesse.

Sapete chi ha sparigliato le carte? Il cardinale Montini, anche noto come Paolo VI, che ha avuto l’ardire di dire che sarebbe meglio far capire il messaggio alla gente piuttosto che mantenere il mistero linguistico per i professori in gamba. Geniale! Da quel momento, tutto è cambiato, come nella migliore delle favole.

E poi c’è stato Benedetto XVI, il papa che ha *rilanciato* il latino, perché in fondo il latino è trendy, no? La Pontificia Accademia di Latinità, in preda a una sorta di nostalgia, ha persino riaperto la rivista *Latinitas*. Poesia in latino? Certo, perché chi non vorrebbe scrivere versi che nessuno capisce? E che dire degli studiosi che dovevano districarsi tra università cattoliche e le *difficultés* del latino stesso, quasi fosse una lingua maledetta. Ehi, sarebbe opportuno che i sacerdoti almeno sapessero l’italiano, ma poi ci lamentiamo se ci insegnano cose che non capiamo!

Ma non poteva mancare il dramma tra i papi, giusto? Si dice che ci fosse una tensione palpabile su questo tema. A quanto pare Benedetto aveva un occhio per l’estetica, mentre Bergoglio… bene, lui proviene da un’altra scuola di pensiero. Sicuramente conosceva il latino, ma senza il dna di un parlatore nativo. Eppure, quasi in un atto di ribellione poetica, scriveva ancora in latino. Per l’amor del cielo!

Ma torniamo al nostro esperto. Dunque, lei, caro professore, è un credente? Ah, il Vaticano l’ha accolto, robetta da nulla. Al Corriere è persino uscita una lettera che affermava che era più facile farsi nominare in Vaticano che portare avanti la famosa Staveco. Ma dai!

Insomma, come lo definireste il suo credo? Diciamo che è “credente nel senso del participio presente”, una questione *contingente*, dice lui. I suoi due libri di vita, Lucrezio e la Bibbia, sono un bel mix di filosofia e religione. Ha anche passato nove anni in seminario, chissà quante lezioni di latino avrà fatto. E poi, voilà, eletto nel consiglio comunale dal Pci, pur non essendo mai stato iscritto. Chapeau!

E infine, chi sarà il suo punto di riferimento? Diciamo che si sente più vicino a Francesco che a Benedetto. Per Bergoglio, l’essenza è la carità, perché credere senza aiutare gli ultimi è solo fumo negli occhi. Ma Benedetto era un sognatore teorico. La contraddizione perfetta!

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