Fra i referendum che ci attendono, c’è da chiedersi: ma siamo sicuri che tutti siano sulla stessa lunghezza d’onda? Certamente no! Se mai ci si potesse illudere che il valore di un referendum possa essere misurato con un righello, ecco che possiamo dirci fortunati. I cinque referendum di cui parleremo sono così diversi che sembrano provenire da pianeti differenti, e sì, temo che questa peculiarità influenzerà la nostra partecipazione al voto.
Quattro di essi riguardano il mondo del lavoro: licenziamenti, contratti e appalti. Sembra quasi che stiamo votando per la nuova versione di un manuale di istruzioni piuttosto che per un cambiamento reale. Uno solo si occupa di cittadinanza, il che è come trovare una pepita d’oro in un sacco di patate. In effetti, i primi quattro referendum, anziché stravolgere il nostro vivere sociale, toccano più che altro aspetti tecnici. Potremmo anche dire che dipende dalle opinioni personali: sarà un miglioramento? Oppure no? Chi lo sa? Certamente non i redattori delle norme.
Il quesito sulla cittadinanza, pur entrando in una questione tecnica apparentemente secondaria, si intreccia con quella che è una questione di principio, di identità, di appartenenza. Chi può dire di essere veramente cittadino? Chi ha il diritto di essere considerato parte del nostro bel club sociale? La lotta per la “cittadinanza” è un tema serio: stiamo parlando del “diritto ad avere diritti”, come se lo definiva la grandissima Hannah Arendt. Qui si gioca una partita cruciale, una sorta di lotteria da cui dipende se la nostra società sarà più inclusiva o, per dirla in termini più diretti, più chiusa e arida.
Per quanto riguarda il testo dei quesiti, beh, tutti e cinque sono un perfetto esempio di incomprensibilità. Perché, è chiaro, una colloquialità più efficace è decisamente troppo da chiedere! Sì, sarebbe una buona idea rivedere quelle norme che ci costringono a scrivere in modo così burocratico e pesante. Certo, come stupirsi se la partecipazione è in caduta libera quando il messaggio è un rebus indecifrabile? Ma torniamo al quesito sulla cittadinanza: qui non stiamo parlando solo di norme, stiamo parlando di una concezione di società che può cambiare radicalmente il nostro presente e soprattutto il futuro. Si avvicina più a un referendum spartiacque della nostra storia, alla stregua di quello sul divorzio o sull’aborto. Sì, ho detto proprio questo.
Di cosa tratta questo referendum? Semplice, abbattere gli anni di residenza necessari per la domanda di cittadinanza. Il modo migliore per giungere a una nuova normativa? Ma certo, chi non ama la semplificazione? Non importa che sarebbe necessaria una discussione parlamentare approfondita per aumentare la consapevolezza del paese. No, la politica ha deciso di abdicare al suo dovere, come sempre quando si tratta di questioni importanti e divisive, che di fatto sono tutte. E così, come per i diritti civili, ci stiamo affidando a sentenze della Corte Costituzionale. O magari a referendum. I promotori, che hanno solo la possibilità di abrogare (il nostro sistema non prevede referendum propositivi), hanno optato per la soluzione più semplice: mantenere intatta la legge (con tutti i requisiti di reddito, conoscenza linguistica, fedina penale pulita e così via), ma accorciare i tempi di attesa. Si passa da dieci a cinque anni per fare richiesta. Un bel cambiamento, proprio come in Germania, che fino a poco fa era il paese europeo con il più rigoroso ius sanguinis, o in Francia, Belgio, Svezia e Portogallo. In Austria e Finlandia ci vogliono sei anni. Il problema? Che in Italia i tempi reali sono ben più lunghi. Lo stato si prende tre anni per rispondere, ma non si sa quando mai arrivi la risposta, e nessuno fa causa contro uno stato che ha il potere di dirti se appartieni o meno a quella comunità. Così, si arriva a un’attesa di quasi dieci anni in sostanza (quindici oggi, giusto per restare aggiornati).
Quali sono le conseguenze? La riduzione dei tempi non riguarda solo chi vuole presentare domanda (molti si asterranno, sia per disinteresse che per la cittadinanza di paesi che non prevedono la doppia cittadinanza). Inoltre, l’acquisizione della cittadinanza dei genitori ricade automaticamente sui figli minori (escludendo i minori stranieri non accompagnati), interagendo così con il mai approvato ius scholae: una platea potenziale di circa un milione e trecentomila giovani (in realtà, molto meno per i motivi sopra citati), tre quarti dei quali sono nati in Italia e frequentano le nostre scuole assieme ai nostri figli. Persone che spesso si sentono cittadini. Che i loro coetanei considerano pari. Che, se le ascoltassimo senza vederle, non ci accorgeremmo nemmeno che sono di origine straniera. Eppure, a costoro sono negati i diritti che hanno i nostri figli. Ogni giorno, attraverso questo semplice fatto, trasmettiamo un messaggio di esclusione, un rifiuto. Un chiaro messaggio che dice: tu non sei come noi. Difficile pensare che questo possa rappresentare un incentivo all’integrazione e, di conseguenza, un vantaggio per noi, autoctoni.


