Il Lesotho in bilico per i dazi mentre negli Usa si litiga su chi vince la guerra dei jeans

Il Lesotho in bilico per i dazi mentre negli Usa si litiga su chi vince la guerra dei jeans
Lesotho in tilt per i dazi Usa da 50%: a rischio perfino i jeans Levi’s e Wrangler

L’idea che i dazi americani possano far fallire uno Stato africano sembra il colpo grosso di un film drammatico, eppure è la cruda realtà che sta vivendo il Regno del Lesotho. Dopo l’annuncio di tariffe doganali americane al 50%, questo piccolo regno incastonato nel Sudafrica è precipitato in una crisi senza precedenti, minacciando di cancellare persino la presenza dei classici jeans Levi’s e Wrangler dagli scaffali USA.

Il ministro Mokhethi Shelile non usa giri di parole: ha decretato lo stato di calamità e invoca un dazio più “umano” intorno al 10%, sostanzialmente l’unico margine di sopravvivenza possibile. Oltre quel limite, ha sentenziato, l’industria tessile destinata all’esportazione negli Stati Uniti non avrà altra scelta che chiudere o reinventarsi altrove. Per la cronaca, lo stesso Donald Trump aveva liquidato il Lesotho come “un paese che nessuno conosce”. Un dettaglio poco rassicurante per chi ora rischia il collasso economico.

Con i suoi 2,3 milioni di abitanti, il Lesotho non è solo un’incastonatura geografica ma il più grande esportatore africano di abbigliamento verso gli Stati Uniti. A rendere la situazione ancor più grottesca, l’amministrazione americana ha minacciato dazi non da poco: il 50% sui prodotti moda del Paese, uno degli scaglioni più alti riservati a livello globale.

Dietro questi numeri, c’è un’industria tessile che impiega stabilmente circa 40.000 lavoratori, un vero e proprio gigante privato per il piccolo Stato montano. Da quando i dazi sono stati annunciati, però, gli esuberi quasi si contano a migliaia. La beffa si allarga: i tagli ai finanziamenti dell’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale hanno aggravato il quadro, con centinaia di licenziamenti aggiuntivi in settori strategici.

Questa industria rappresenta circa un decimo del PIL locale (2 miliardi di dollari), un ossigeno vitale gravemente minato da un provvedimento imposto da oltreoceano che non tiene conto dei margini già risicatissimi del business. Teboho Kobeli, fondatore di uno dei principali produttori locali di abbigliamento, non perde tempo: “I licenziamenti sono ormai su scala massiccia”.

Innanzitutto il governo ha approvato lo stato di calamità per bypassare le lentezze burocratiche senza più tante manfrine, puntando su investimenti rapidi in edilizia e agricoltura per creare nuovi posti di lavoro e tamponare il disastro.

Tutti i ministeri sono stati invitati a donare il 3% dei loro bilanci a un fondo da 22,2 milioni di dollari, destinato a sovvenzioni per i giovani e finanziamenti per imprenditori, nel disperato tentativo di rilanciare il settore privato. E se non bastasse, il tasso di disoccupazione giovanile si attesta a un impressionante 48%, confermando che il Lesotho non naviga in acque tranquille da nessuna angolazione.

Un ulteriore colpo al messaggio trionfalistico arriva proprio da chi conosce il settore: “L’industria dell’abbigliamento qui è una catena del valore frammentata, gran parte del valore aggiunto non resta nel Paese,” spiega Kobeli. Tradotto: si aspettava forse un miracolo da una tipologia d’industria che da sola non può certo salvare un Paese, figuriamoci sotto la spada di damocle di tariffe proibitive.

Come ciliegina sulla torta, l’amministrazione Trump sta già preparando un “modello” per trattare con altri Paesi africani, magari pensando che un mondo fatto di dazi stratosferici e minacce economiche possa davvero portare stabilità e sviluppo. O forse il vero scopo è solo guadagnare tempo mentre intanto chi ha meno voce resta a galleggiare tra le macerie.

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