Il costo dell’auto tradizionale: uno studio rivela l’impatto della mancata transizione elettrica

Il costo dell’auto tradizionale: uno studio rivela l’impatto della mancata transizione elettrica

Assumendo la proverbiale disattenzione italiana nei confronti dell’innovazione, ci troviamo di fronte a un futuro in cui l’industria automobilistica potrebbe subire un calo drammatico della produzione, fino al 56-58% entro il 2030. E quale sarebbe il costo dell’inazione? Si stima fino a 7,49 miliardi di dollari, un bel gruzzoletto che non farà certo la felicità di nessuno. Questi dati sono frutto di uno studio commissionato da robusti think tank a cervelli illuminati della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e del Centro Ricerche Enrico Fermi di Roma. La ricerca esplora le conseguenze economiche e sociali del declino della produzione di auto nel bel paese, mentre a livello globale si tenta di correre verso il traguardo dell’elettrico. Attualmente, l’industria dell’auto in Italia si trova a dover affrontare un calo prolungato, con previsioni per il 2024 che parlano di appena 310mila unità, un 85% in meno rispetto al picco di 2 milioni di auto prodotte nel 1989.

Crisi e Incongruenze in un Settore in Ritardo

Il quadro è desolante: il Paese meno attrattivo d’Europa per gli investimenti nel settore dell’auto, in una regione che fatica a tenere il passo con USA e Cina. Secondo Andrea Boraschi, esperto in materia, la crisi non è nata ieri, ma affonda le sue radici in un passato che ignora il futuro elettrico della mobilità. Eppure, nel 2024, le vendite di auto elettriche a batteria sono rimaste ferme al 4% delle nuove immatricolazioni, mentre in altri mercati europei volano a due cifre. Sorprendente, vero, per un’Italia che si vanta di avere sempre un occhio all’innovazione.

Il Prezzo dell’Inazione: Un Circolo Vicioso

Il messaggio è chiaro: senza una strategia di elettrificazione e senza un piano per l’innovazione, i posti di lavoro nel settore continueranno a svanire. La conseguente riduzione del potere d’acquisto porterà a un ciclo economico regressivo senza fine. A seconda dello scenario preso in considerazione, gli esperti stimano che il costo dell’inazione potrebbe variare tra i 7,24 e i 7,49 miliardi di dollari, con perdite di posti di lavoro comprese tra 66mila e 94mila. Insomma, chi paga il conto? I contribuenti, con un incremento della spesa per la cassa integrazione che potrebbe superare i 2 miliardi di dollari in dieci anni. Una cifra che fa paura, considerando che nel 2022 hanno speso solo un miliardo di euro in welfare per i disoccupati, ma evidentemente non è abbastanza.

Scenari e Prospettive Sconfortanti

Lo studio, firmato da esperti quali Maria Enrica Virgillito, Angelica Sbardella e Lorenzo Cresti, delinea tre scenari. Il più cauteloso prevede che il 65% dei lavoratori in esubero venga riassorbito in altri settori, mentre il restante 35%… beh, non si sa. Forse avremo una nuova economia della precarietà, la soluzione perfetta per un futuro incerto? Sembra che l’Italia non riesca a tenere il passo, ma ahimè, restiamo ottimisti.

Possibili Soluzioni: Illusioni o Realtà?

Si potrebbe argomentare che la risposta stia semplicemente nell’implementazione di politiche industriali lungimiranti. Ma sarà davvero così? In un mondo dove gli impegni politici sono frequentemente disattesi, ci si chiede se le soluzioni troveranno mai uno spazio nella realtà. L’idea di innovare, di attrarre investimenti, di creare posti di lavoro appare, giustamente, una mera illusione. Forse la vera soluzione è investire invece in un ufficio per restituire promesse mai mantenute, così nessuno rimarrà deluso. O forse un’altra strategia potrebbe consistere nel ballare la danza del “che ci importa?”, ben lontano dai dati e dalle previsioni che ci fanno capire quanto la situazione sia grigia. In definitiva, con tutti questi interrogativi che rimangono inevasi, si potrebbe concludere che piuttosto che un dottorato in economia, ci vorrebbe un Master in realismo pratico per riuscire a orientarsi in questa giungla di numeri e previsioni.

Si parla di transizione energetica, ma guardando ai numeri emerge un quadro piuttosto inquietante. Entro il 2030, si prevedono perdite da capogiro: 7,24 miliardi in valore della produzione e 4,42 miliardi in consumo di automobili, mandando in fumo un incredibile 56% rispetto al 2020. I lavoratori espulsi dal settore? Un esercito di 66.400 persone, di cui 24.600 attualmente nel settore auto e ben 41.800 in tutto il resto della filiera — un 65% e 54% di ristrutturazioni pesanti dove bisogna solo chiedersi: chi se ne preoccupa davvero?

Sfide e spese senza fine

Se consideriamo la scena più pessimistica, quella in cui solo il 15% dei lavoratori riesce a trovare un nuovo impiego, il calo di produzione e consumo schizza al 58%. In questo scenario, i posti di lavoro persi toccano quota 94.000. Raccapricciante l’idea che quasi 30.000 impiegati siano volati via, segnando una riduzione del 77,6% rispetto al 2020. La cassa integrazione per i 75.000 lavoratori verserebbe 2 miliardi di dollari, quattro volte di più rispetto a quanto preventivato nell’opzione meno allarmante. Eppure ci si aspetta che il governo trovi il modo di gestire questo gigantesco buco. Ma è chiaro che nessuno vuole perdere di vista la priorità: l’auto elettrica.

Il coniglio nell’uovo di Pasqua: promesse e realtà

Nel “secondo” scenario, la cosiddetta medium intervention, il 45% dei lavoratori potrebbero migrere altrove, mentre il 5% rimarrebbe disoccupato. Risultato? I numeri dei lavoratori persi si attestano a 75.600, tra cui 26.400 in posizioni dirette. La cassa integrazione? Coprirebbe fortunatamente 38.000 lavoratori, ma il costo per il Stato sarebbe intorno a un miliardo — giusto un altro piccolo balzello da aggiungere a un fardello già pesante. Parrebbe quasi che le proposte di riforma facciano parte di un circolo vizioso dove il governo è sempre “ritardatario”.

Interventi o slogan vuoti?

Si menzionano misure straordinarie, come il social leasing e l’accelerazione nell’elettrificazione delle flotte aziendali. T&E non si fa mancare niente, proponendo meccanismi come l’Ecoscore per i veicoli puliti. Ma la retorica scontrandosi con la pratica genera solo una bella collezione di buone intenzioni. La priorità? Stimolare investimenti verso la produzione di veicoli elettrici e componenti made in Italy, il tutto mentre si afferma che l’Italia potrebbe — udite udite — «sostenere gli investimenti» destinati alla mobilità elettrica. Ma quali investimenti, dati i trending negativi?

È tempo di soluzioni (e qualche ironia)

In uno stato di incertezze, esigiamo soluzioni concrete, anche se sembrano più chimere che realtà. Non basta dire “supporteremo la transizione” se il disaccoppiamento tra i costi di gas e delle rinnovabili rimane solo un miraggio. Potremmo scoprire che investire nella mobilità elettrica è più di un semplice sogno e che richiede anche un’accettazione delle realtà: un cambio radicale, che chiama a raccolta i decisori. Chi ha tempo da perdere per aspettare che i piani diventino azioni? A questo punto sembrano più slogan pubblicitari che promesse reali. E il continuo adattamento di richieste come quelle sui biocarburanti non fa che dimostrare quanto velocemente la burocrazia possa rallentare l’innovazione. E così, rimaniamo con il nostro eterno interrogativo: quando passeremo dalle parole ai fatti?

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