Amanti del gelato come Magnum, Cornetto, Carte D’Or, Ben & Jerry’s, Breyers e Wall’s, gioite: ora potete possedere azioni di questi marchi direttamente, grazie alla miracolosa scissione della Magnum Ice Cream Company (TMICC) dalla sua ex-madre Unilever. Un evento di Borsa così clamoroso che ha fatto sobbalzare perfino i trader più scafati nel 2025.
Il debutto delle azioni TMICC è andato in scena alla grande su Euronext ad Amsterdam, con altrettante quotazioni secondarie a Londra e New York. Proprio lì, il magnanimo amministratore delegato Peter ter Kulve ha avuto l’onore di suonare la campanella d’apertura, mentre si concedeva una chiacchierata in diretta su CNBC’s Squawk on the Street, perché bisogna anche sapersi far pubblicità.
Con una valutazione di 7,8 miliardi di euro (circa 9,1 miliardi di dollari), TMICC si fregia del titolo – mica da ridere – di più grande produttore di gelati al mondo e, badate bene, questa è la più grande IPO (offerta pubblica iniziale) sull’Euronext del 2025. Festeggiamo!
Ma che ne sarà della neonata società e del gigante Unilever da cui è stata staccata? Ah, bella domanda: sia le prospettive di TMICC che di Unilever sono quanto di più incerto si possa immaginare.
I dubbi su TMICC
Innanzitutto TMICC. Anche il prezzo delle azioni può oscillare più delle variazioni del tempo invernale. La società stessa avvisa che, non essendo ammessa agli indici più prestigiosi come il FTSE 100, ci sarà probabilmente un fuggi fuggi iniziale da parte dei fondi indicizzati, relegando le sue azioni a oggetto di trading instabile e poco amato dalle masse.
Ah, dimenticavo: niente dividendi nel 2026. Così, giusto per togliere ulteriore entusiasmo tra gli azionisti più pazienti.
Per limitare il danno, Unilever e i suoi maghi della finanza hanno piazzato un prezzo di riferimento incredibilmente basso alle azioni TMICC, così da attirare quei coraggiosi cacciatori di occasioni che non vedono l’ora di mettersi una scommessa in mano.
Infatti, TMICC è relativamente economica: considerando il debito, vale appena un pelo più del suo concorrente britannico Froneri, joint venture tra Nestlé e la società francese di private equity PAI Partners. Nel gigantesco mercato globale da 87 miliardi di dollari, Froneri detiene l’11%, mentre TMICC sventola la bandiera con il 21%.
Se parliamo di prospettive di mercato, però, il futuro non è affatto zuccherato. La popolarità sempre crescente dei farmaci per la perdita di peso mette in pericolo le vendite di gelati più di quanto si immagini.
Prima della separazione, ter Kulve ha deciso di minimizzare i rischi, spiegando come TMICC abbia da tempo rivoluzionato il suo portafoglio prodotti per includere gelati a basso contenuto di zucchero, con più proteine o in porzioni più controllabili — tipo il gelato Breyers CarbSmart con più proteine o il gelato Ben & Jerry’s che ha abbandonato le vaschette per passare ai ghiaccioli su stecco.
Il CEO ambisce a una crescita annua organica delle vendite tra il 3 e il 5% nel medio termine, un filo sopra il misero 3% che TMICC ha realizzato da quando era sotto la cura di Unilever.
Forse, in quanto società indipendente, TMICC potrà finalmente dedicare un po’ più di attenzione e investimenti alla catena di approvvigionamento, che finora era stata trascurata dall’ombrello di Unilever. Magari questo sarà il vero valore aggiunto, o almeno così ci raccontano.
Come ha saggiamente commentato Chris Beckett, analista nel settore beni di largo consumo per il wealth manager Quilter Cheviot:
“Mentre Magnum non ha certo brillato sotto la guida di Unilever, c’è qualche barlume di speranza che il neonato management, tutto o quasi ex dipendenti della stessa Unilever, riesca a tirare fuori qualche risultato operativo decente.”
Il tallone d’Achille: Ben & Jerry’s
Ovviamente, la ciliegina sulla torta di questa avventura non poteva che essere Ben & Jerry’s, acquistata da Unilever nel lontano aprile 2000. Da allora, è diventata un vero e proprio grattacapo.
Nel 2021 i fondatori Ben Cohen e Jerry Greenfield si erano messi di mezzo per impedire a Unilever di vendere i gelati nelle colonie israeliane in Cisgiordania, scatenando un putiferio mediatico e costringendo al successivo svendita del ramo israeliano a un licenziatario locale.
Greenfield ha abbandonato la barca a settembre di quest’anno, mentre il mese scorso TMICC ha dichiarato che Anuradha Mittal, presidente del consiglio indipendente di Ben & Jerry’s, “non soddisfa più i requisiti” per restare in carica, senza aggiungere altro. Mistero fitto.
In una tipica diretta parlantina olandese, ter Kulve ha candidamente detto al Financial Times che è tempo che Ben & Jerry’s passi a una nuova generazione.
In chiusura, ter Kulve ha anche avvertito con nonchalance che TMICC potrebbe non continuare più a sostenere tutte le iniziative attuali di Ben & Jerry’s, un segnale che chi conosce la complessità delle dinamiche politiche che coinvolgono questo marchio sa bene quanto sarà divertente seguire gli sviluppi futuri.
Ah, che gioia assistere all’ennesima commedia aziendale targata Unilever, che ha deciso di disfarsi della sua divisione gelati, nota come TMICC. Ma tranquilli, non lo fanno mica per spirito filantropico o per il bene del povero consumatore, bensì perché qualcuno si è finalmente accorto che quei risultati non brillano esattamente come si sperava. Nel frattempo, mantengono una quota del 19,9% – perché si sa, vendere tutto subito è troppo mainstream – con la prospettiva di smantellarla nell’arco dei prossimi cinque anni. Roba da manuale di come “svuotare l’armadio” senza rinunciare del tutto al guardaroba.
Da decenni si tenta di dare un nuovo “pizzico di magia” al valore di mercato del gigante anglo-olandese, ma finora è stato un susseguirsi dispersivo di acquisizioni e dismissioni che più che una strategia sembra un miracolo combinato di tentativi e errori. Ricordate quei periodi d’oro ai tempi di Ben & Jerry’s, Slim-Fast e Best Foods? Per non parlare dell’acquisto multimiliardario del 2016 di Dollar Shave Club, che sembrava promettere mari e monti ma si è rivelato un investimento da cartellino rosso. E poi c’è stata la rincorsa al marchio “sano” con l’acquisizione di Graze, ormai dimenticata e pure rivenduta.
Nel frattempo, ecco altre gemme gettate via come fossero caramelle scadute: la divisione prodotti chimici specializzati venduta nel 1997, il business delle margarine, incluso il celebre Flora, ceduto al miglior offerente nel 2017, e l’addio ai tè neri iconici come PG Tips e Lipton, venduti per una miseria a una società di private equity nel 2021. E non finisce qui. Abbiamo assistito all’uscita di scena di brand minori, come Ambrosia, Brown & Polson e Birds Eye, che suonano più come una lunga lista di “disamori” aziendali che una reale pianificazione strategica.
Non è facile seguire la danza frenetica di nomi e iniziative progettate per far decollare finalmente la stella di Unilever. Dal Unilever Sustainable Living Plan del 2010, passando per il Connected 4 Growth del 2016, fino al recentissimo Unilever Compass Strategy for Sustainable Growth del 2022, sembrerebbe che ogni tot anni serva una nuova bacchetta magica per riprovare a misurare il valore del colosso.
Eppure, nessuna di queste epiche trasformazioni ha mai superato l’effetto dirompente di quel passo epocale compiuto cinque anni fa, quando le due antiche entità, la britannica Unilever plc e la olandese Unilever NV, hanno smesso di fingere di odiarsi per sempre e si sono finalmente fuse in una singola società. Una mossa che avrebbe dovuto garantire un’agilità corporativa degna di un campione olimpico e un rinnovato splendore finanziario. O almeno così si sperava.
E ora con la separazione della divisione gelati, si torna a puntare tutto su una manciata ristretta di marchi, quei 24 superstiti che rappresentano il 75% del fatturato totale. Un poker d’assi ben collaudato, con una dozzina di brand che superano il miliardo di euro l’anno, tra cui spiccano nomi come Dove, Omo e Domestos. Il nuovo amministratore delegato, Fernando Fernandez, uomo di fretta e decisione, ha annunciato entusiasta:
“Per Unilever, questo traguardo ci permette di affinare sempre più il nostro focus nel costruire un portafoglio di marchi potenti con un’armoniosa presenza geografica e prospettive di crescita superiori.”
Peccato che, tra questi colossi dal giro d’affari miliardario, solo due marchi alimentari — Knorr e Hellmann’s — possano vantare tale grandezza. Gli altri cibi come Marmite, la senape Colman’s e Bovril sono già pronti per essere messi in vendita, come le reliquie di un passato dimenticato. Se la scissione della divisione gelati non provocherà un aumento dell’appetibilità di Unilever sul mercato, nessuno si stupirà nel vedere il gruppo trasformarsi definitivamente in un conglomerato dedicato esclusivamente alla bellezza, al benessere e alla cura personale, lasciandosi alle spalle qualsiasi nostalgico ricordo del cibo.
Nel frattempo, tra le produzioni di azioni strategiche che più ricordano una soap opera senza lieto fine, resta solo da sperare che questa nuova scissione porti davvero a un cambio di pagina. Ma si sa, in certi casi, cambiare il nome delle poltrone è la migliore strategia per far finta di fare sul serio, quando in realtà si sta semplicemente girando in tondo.
Nel frattempo, tra le meraviglie del mercato azionario britannico, spicca una società di viaggi che promette faville, almeno secondo Alyx Wood, cofondatrice e direttore degli investimenti di Kernow Asset Management, alias la contraria per eccellenza. Alyx non ha dubbi: il titolo è “materialmente sottovalutato” e nel giro di cinque anni potrebbe quasi quintuplare il suo valore. Fate i conti, signori, 468% di rialzo atteso. Sicuramente uno scherzetto da prendere con le pinze, ma tentare non nuoce.
George Godber, gestore del fondo Polar Capital UK Value Opportunities, ha invece azzardato una previsione sull’andamento del mercato inglese, magari per cercare di tirar su qualche speranza da un 2024 che si profila decisamente più interessante:
“Partendo dalla riunione della Banca d’Inghilterra di dicembre, dovremmo finalmente avere una rotta molto più chiara verso un taglio dei tassi nel Regno Unito… Il mercato inglese non ha fatto malissimo quest’anno, ma quegli abbassamenti dei tassi offrono una storia decente su cui puntare per il prossimo anno.”
I mercati a Londra: una parentesi di contorsioni
Le azioni quotate a Londra hanno fatto dietrofront questa settimana, scontando un calo dello 0,62% dal mercoledì precedente. Martedì, il FTSE 100 ha chiuso praticamente in parità, appena sotto la soglia di 9.642 punti, rompendo così il sogno molto british degli storici 10.000 punti agognati da tutti. Un capolinea mai raggiunto, ma il tentativo c’è stato, lo prendiamo come segno di coraggio.
Regina indiscussa del rialzo è stata WPP, che martedì (+6,3%) ha brillato annunciando l’aggiudicazione di un succulento contratto per la gestione delle campagne pubblicitarie del governo britannico. E qui bisogna fare un applauso: un contratto quadriennale da ben 2 miliardi di sterline, più o meno 2,7 miliardi di dollari, che affida all’agenzia Wavemaker – figlia del gruppo WPP – la gestione quasi onnipotente di media e pubblicità governative. Decisamente un bel colpaccio per il gigante della comunicazione.
Non è stata da meno neanche Unilever, altra protagonista del FTSE, che ha visto un’impennata delle sue azioni del 3,6%. Il motivo? L’esordio in grande stile di The Magnum Ice Cream Company nelle Borse di Londra, New York e Amsterdam, un lancio che ha portato venti di novità – belli freschi come un cono gelato – a un gigante della crema fredda.
Quanto alla sterlina, ha sofferto uno lieve ribasso rispetto al dollaro, passando da 1,3352 a 1,3296 dollari negli ultimi sette giorni. Il tutto, mentre i rendimenti dei gilts britannici (i famigerati titoli di stato decennali) sono saliti leggermente, da un già stellare 4,480% a un più scintillante 4,511%. Ovviamente, chi ha fretta di investire non poteva chiedere di meglio.
Il grafico di performance dell’indice Financial Times Stock Exchange 100 sull’ultimo anno parla da sé: un’altalena di emozioni che nemmeno il miglior thriller finanziario potrebbe offrire.
Calendario degli eventi da non perdere
Segnatevi queste date: il 12 dicembre usciranno i dati mensili sul PIL e sul commercio per il Regno Unito relativi a ottobre, perché di numeri che cambiano il futuro nessuno mai si è stufato. Il 15 dicembre vedremo invece il fatidico indice dei prezzi immobiliari di Rightmove, un termometro imprescindibile per sentire quanto salgono o scendono le nostre ambizioni di comprare casa sopra il Tamigi.
Infine, il 16 dicembre si attenderanno i dati sulla disoccupazione di ottobre, perché niente regala più studi e analisi interessanti di quanti ancora si aggirano senza lavoro nelle fantastiche terre inglesi.



