Genova ha deciso di fare il grande passo: un salario minimo di nove euro lordi all’ora per i lavoratori delle imprese appaltatrici del Comune. Sì, proprio così, un provvedimento approvato dal sindaco Silvia Salis (Pd), che ha decretato che chiunque osi offrire meno di questa somma dovrà starsene fuori dalle gare d’appalto. Una dichiarazione d’intenti degna di un film motivazionale: «Il denaro pubblico non servirà più a finanziare il lavoro povero», ha sentenziato la sindaca in un video istituzionale, dipingendo Genova come la città modello della socialmente sostenibile. Perché, ovviamente, il lavoro non è solo una voce di bilancio da falciare come se non ci fosse un domani, ma rappresenta dignità – parola sacra da tutelare, almeno nel mirabolante universo dorato della pubblica amministrazione.
Al di là delle chiacchiere, per la sindaca questa misura assume anche un’aura quasi messianica. Nel giro di meno di due mesi dal suo insediamento, infatti, Salis è riuscita a varare una specie di rivoluzione locale (beninteso, solo nel settore pubblico) su un tema che a livello nazionale il suo partito e quel “campo largo” tanto decantato – e tanto difficile da montare sulle piattaforme politiche nazionali – non hanno saputo nemmeno sfiorare. Non male, per una primavera che l’ha vista trionfare nella sua città.
Naturalmente, Genova si è unita alla schiera di città e istituzioni illuminate come Firenze, Napoli o la Regione Puglia, tutte con la stessa brillante idea di imporre un salario minimo negli appalti pubblici. E qui arriva la sorpresa: perfino in un provvedimento tanto progressista qualcuno trova da ridire. La Cgil applaude, sia chiaro, ma Cisl e Uil storcono il naso, lamentando la modalità “imperiale” della giunta, che ha fatto tutto in fretta e furia senza neanche sedersi al tavolo con le parti sociali. «È ingiustificabile», dichiara Daniele Granara della Cisl Genova, trincerandosi dietro un’argomentazione che sa di déjà-vu sindacale.
Un aumento dell’imposta prediletto dai virtuosi
Nel frattempo, come regalo di benvenuto alla responsabilità sociale, il bilancio cittadino si è arricchito di un’imposta aggiuntiva sulle case in affitto a canone concordato. Perché se c’è una cosa che i cittadini amano, è sicuramente pagare di più per affitti che già mostrano una discreta dose di “concordato”. Misura impopolare? Sicuro, ma evidentemente “necessaria” per l’ennesima volta, almeno a giudicare dalle rassicurazioni istituzionali.
Come sempre, le opposizioni si sono lanciate in proteste accese degne di un teatro d’opera: applausi alle novità da parte di qualche schieramento e urla di protesta da parte di chi avrebbe preferito, chissà, una bacchetta magica che abbassasse le tasse senza toccare neppure un affitto. Ma i conti, si sa, sono una bestia difficile da domare, soprattutto quando si devono mantenere tutte queste mirabolanti promesse elettorali che suonano tanto bene in campagna, meno al momento di scrivere i numeri in nero.
Insomma, una mano al salario dignitoso e l’altra al portafoglio dei proprietari di immobili. Genova si scaglia contro il lavoro povero, a patto che non si dimentichi di spremere il cittadino come un limone. Che progresso sociale, eh?
Consentitemi di chiudere con un dubbio amletico: in questo spettacolo di buone nuove, tasse e dignità di lavoro, chi è che alla fine ci guadagna davvero? Perché, dai, sappiamo tutti che quando la politica decide di farsi paladina della giustizia sociale, c’è sempre qualche ingranaggio che non incastra perfettamente – e che qualcuno, più spesso il cittadino qualunque, ci rimetterà il portafoglio.
Che brillante idea: migliorare le condizioni dei lavoratori senza davvero migliorare nulla, aggirando la contrattazione collettiva come se fosse un fastidioso ostacolo da evitare. Così almeno la pensa la Uil Liguria>, che con grande chiarezza ci comunica che accontentarsi non rientra nel loro dizionario. Anzi, Riccardo Serri e Giuseppe Gulli, rispettivamente segretario generale e operativo del sindacato, sono più che determinati: avranno il piacere di usare “il modello utilizzato nella contrattazione nazionale e territoriale” per spingere verso retribuzioni ancora più alte. Tradotto: si alzano l’asticella mentre rimangono saldamente fuori dalla porta della concertazione che dovrebbe definire davvero i rapporti di lavoro.
Nel frattempo, la giunta comunale di Genova, sempre ieri, ha dato il suo benvenuto a una bella dose di impopolarità approvando la manovra di bilancio con un’aggiunta speciale: il solito aumento dell’IMU per ben 27 mila immobili affittati a canone concordato. Sorprendente, vero? Un aumento che non solo è criticato da molti, ma sembra proprio una chiamata alle armi per far discutere i cittadini, i proprietari e chiunque abbia un affitto da gestire. L’amministrazione civica, naturalmente, definisce la misura non solo necessaria, ma fondamentale per evitare di mandare a gambe all’aria le finanze comunali e per continuare a garantire servizi essenziali come welfare ed educazione. Sarebbe quasi commovente, se non fosse che la necessità di coprire un buco di ben 5 milioni di euro – parte di un bottino complessivo di 25 milioni per tenere viva la macchina comunale – suonasse come una missione quasi eroica, come spiegato dal vicesindaco Alessandro Barile.
Peccato che la festa sia tutta da disputare, visto che la manovra non è certo scolpita nella pietra: dovrà passare per l’approvazione del consiglio comunale la settimana prossima, il che offre alla opposizione il palcoscenico perfetto per saltare con entusiasmo sulla sedia. Parola degli esponenti della Lega: questa manovra è una “stangata” che farà lievitare le spese delle famiglie di almeno 190 euro ciascuna. Non proprio una passeggiata. E come se non bastasse, anche Fratelli d’Italia si scatena, accusando senza troppi giri di parole la giunta Salis: “la prima azione è un aumento delle tasse”. La cantilena è impreziosita da un’altra bordata, stavolta dalla lista d’opposizione Vince Genova, che definisce il provvedimento “una clamorosa contraddizione” rispetto alla propaganda progressista sfoggiata da Silvia Salis in campagna elettorale. Dunque, o la politica locale ha scoperto l’ironia della situazione, oppure è la solita danza delle promesse tradite, accompagnata da un coro disilluso di piccoli proprietari immobiliari che gridano al “grave tradimento”.
Quando le tasse diventano star dello spettacolo
Insomma, la ricetta magica sembra chiara: nulla che possa direttamente migliorare la vita dei lavoratori o degli inquilini, ma un buon aumento dell’IMU da sbandierare come manna dal cielo per salvare i conti comunali. In una città come Genova, dove ogni euro conta e le tensioni sociali sono solo dietro l’angolo, questo tipo di manovra rischia di trasformarsi in una bomba a orologeria. Se da una parte il sindacato pretende ancora di giocare la sua partita su un terreno nazionale e territoriale, dall’altra il Comune si interessa esclusivamente alla cassa, scordandosi un dettaglio piccolo piccolo: le famiglie e i cittadini reali dovranno tirar fuori più soldi dalle tasche.
Ma si sa, aumentare l’IMU è ormai diventato il passatempo preferito di molti amministratori locali: impopolare ma così incredibilmente efficace per tappare buchi e non riformare niente davvero. Perché rischiare un confronto serio con lavoratori e cittadini se si può semplicemente alzare le tasse e sperare che, nel frattempo, la memoria dei contribuenti sia più corta di un bicchiere d’acqua?