Un inno nazionale così sacro da non meritare neanche una riga nella Costituzione, proprio accanto alla bandiera. Sembra uno scherzo, ma no: dopo quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica Italiana, il celebre “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli e Michele Novaro continua a essere relegato a un ruolo da comparsa non ufficiale. Lo ricordiamo a scuola, lo intoniamo allo stadio, ma giuridicamente? Eh no, quello proprio manca.
Non ci pensa nessuno, tranne la Fondazione Insigniti OMRI, guidata dal prefetto Francesco Tagliente, che si è stancata di questa svista epocale e chiede alle istituzioni di inserire finalmente l’inno nell’articolo 12 della Costituzione, accanto alla bandiera – che lì invece ci sta da decenni, tanto per mettere le cose in chiaro.
La proposta ha un alone di simbolismo che non delude: Tagliente e soci vogliono che l’inno diventi la “voce ufficiale della Repubblica”, il canto che unisce veramente, non solo per consuetudine, ma con un riconoscimento giuridico degno di questo nome. Cosa che, fino ad oggi, incredibilmente, manca.
Ma attenzione, non è solo una formalità burocratica da noiosi costituzionalisti. La fondazione sostiene che questo piccolo colpo di spugna rappresenterebbe un “investimento civile e culturale”. Sì, avete capito bene: riconoscere un canto come parte della carta fondamentale dello Stato sarebbe un toccasana per rafforzare identità, appartenenza e altre bellezze democratiche, queste spesso sacrificate sull’altare delle divisioni quotidiane.
E non finisce qui: perché accontentarsi di un giorno simbolo, il 17 marzo, dove si celebra tutto (Unità, Costituzione, Bandiera e anche un po’ di confusione)? La Fondazione propone una Giornata Nazionale esclusiva per l’Inno, così da evitare che la sua forza educativa venga schiacciata sotto il peso di troppe celebrazioni in un unico giorno, quell’eccesso di attenzione diluita che tanto fa bene a… niente.
Immaginate un’intera giornata dedicata a riscoprire il grande Mameli, la sua eredità risorgimentale e a promuovere riflessioni civiche degne di questo nome, con scuole, università, associazioni locali trascinate in un tour de force patriottico di tutto rispetto. Non si tratta di retorica o di una sagra paesana: “i simboli sono radici comuni” e dovrebbero essere coltivati con più cura, pare.
Già inviato l’appello ai parlamentari di Camera e Senato, con tanto di richiesta formale per avviare un percorso legislativo condiviso — come se bastasse un colpo di bacchetta magica per risvegliare un Paese intorpidito da urlacci e divisioni. Nel frattempo, la campagna di sensibilizzazione è partita anche nelle scuole e tra le associazioni: perché, come si sa, nulla unisce di più un Paese delle urla di “cantiamo l’inno” a squarciagola, su misura per un popolo diviso a metà.
Francesco Tagliente ha la sua versione finale, di rara saggezza da contarci almeno trenta volte il perché serva ora più che mai una mossa del genere:
“In un tempo segnato da divisioni e frammentazioni, l’inno, come la bandiera, torna ad essere bussola di unità. Sono sorella e fratello della nostra identità. Riconoscerli entrambi in Costituzione significherebbe compiere un atto di maturità civile, un segno di fiducia nella forza della Repubblica e nel futuro del Paese.”
Insomma, via libera al sacrificio supremo: una pagina in Costituzione per un inno che tutti conoscono, amano e cantano—o almeno così dovrebbe andare—ma che fino ad oggi è rimasto un fantasma giuridico. Se questo basterà a riportare un po’ di coesione e senso civico, staremo a vedere. Nel frattempo, buona risonanza alle prossime cerimonie, magari con un pizzico di ironia in più.