Finalmente il miracolo: la pelle liquida che ti sparano nelle ustioni, perché aspettare la realtà?

Finalmente il miracolo: la pelle liquida che ti sparano nelle ustioni, perché aspettare la realtà?

Un gel stampabile in 3D che potrebbe rivoluzionare il trattamento delle ustioni gravi: ecco la “pelle in siringa” pronta a diventare la nuova frontiera della medicina rigenerativa.

Immaginate una sostanza che racchiude cellule vive, si adatta perfettamente alla ferita e si propaga come un piccolo esercito di rigenerazione cutanea. No, non è fantascienza, ma il risultato di una ricerca che arriva dagli affollati laboratori del Center for Disaster Medicine and Traumatology e dell’Università di Linköping, in quel paradiso nordico chiamato Svezia. Questa innovazione non è solo un altro miraggio tecnologico: apre la porta a un modo completamente nuovo di curare ustioni e lesioni gravi, qualcosa che potrebbe davvero fare la differenza tra la vita e la morte.

Per chi non fosse al corrente, la pelle non è solo un semplice “rivestimento” del corpo, ma la barriera che ci separa da miliardi di microrganismi e dal caos esterno. Ripararla dopo un danno importante non è cosa da poco, credetemi. Finora, il trattamento standard per ustioni estese è stato quello di trapiantare un sottilissimo strato di epidermide, quella specie di “pelle superficiale” costituita principalmente da un unico tipo di cellula. Funziona? Sì, ma a un costo estetico e funzionale non indifferente: grandi cicatrici spuntano come funghi, ricoprendo ciò che una volta era una ferita dall’aspetto terrificante.

Adesso arriva la grande ironia: sotto quell’epidermide superficiale, esiste il derma, uno strato più spesso e complesso, pieno zeppo di vasi sanguigni, nervi, follicoli piliferi e ogni altra diavoleria necessaria affinché la pelle mantenga la sua elasticità e funzionalità. E cosa facciamo? Lo ignoriamo di proposito, perché trapanare via anche uno strato dermico significherebbe creare una nuova ferita pari a quella originale. Geniale, vero?

La soluzione, ovviamente, non è stata sviluppare una formula magica per far crescere l’intero derma in laboratorio, cosa che appare più una barzelletta scientifica che una realtà. Johan Junker, quello che sembrerebbe un esperto serio con il suo titolo di docente di chirurgia plastica al medesimo centro di cui sopra, ammette candidamente: “Il derma è così complesso che non possiamo coltivarlo in laboratorio. Non sappiamo nemmeno tutti i suoi componenti”. Tradotto: abbiamo una vaga idea di cosa succede, ma più o meno ci stiamo arrangiando.

La brillante alternativa proposta da questi geni della biomedicina è tanto semplice quanto brillante: invece di cercare di creare il derma completo in provetta, perché non iniettare i “mattoni” base — ossia cellule del tessuto connettivo chiamate fibroblasti — e lasciare che sia il corpo stesso a tirare su l’edificio? Queste cellule, tanto per non farci mancare un’ulteriore perla di ottimismo, sono facili da prelevare, coltivare e persino trasformare in versioni specializzate secondo le necessità dell’organismo.

Per portare questi “mattoni” sul campo di battaglia, i ricercatori hanno escogitato un’impalcatura di minuscole perle porose di gelatina, una roba che assomiglia molto al collagene che naturalmente si trova nella pelle. Fin qui tutto bene, se non fosse che il liquido contenente queste perle, versato direttamente sulla ferita, rischierebbe di scivolare via come una banana bucata sulla buccia di un’altra banana.

La geniale mossa? Mescolare le perle di gelatina con un gel a base di acido ialuronico, una sostanza già ben nota e apprezzata dal nostro corpo (e dai produttori di creme antirughe). Quando si uniscono, grazie a quella meraviglia chimica chiamata “chimica del clic”, il risultato è un gel viscoso e stabile, capace di restare dove serve. E come lo chiamano gli scienziati? Nientemeno che “pelle in siringa”.

Quel gel mostra una caratteristica che fa sembrare le altre terapie obsolete: aderisce alla ferita e fornisce un ambiente dove le cellule possono prosperare e collaborare per ricostruire un dermo funzionante, senza trasformare tutto in un ammasso di tessuto cicatriziale. Una soluzione che sembra uscita da un film di fantascienza, ma che invece potrebbe diventare la routine clinica del futuro.

Immaginate un materiale che, con una semplice pressione, decide di trasformarsi da solido a liquido, come un adolescente insofferente che cambia umore a comando. Ecco, proprio così funziona questo gel ideato dal brillante Daniel Aili, professore di fisica molecolare presso l’Università di Linköping, che ha guidato questo studio ironicamente spettacolare. Applicato con una siringa su una ferita, il gel scivola liquido, ma poi torna a uno stato gelatinoso più stabile, come un astuto camaleonte biomedico. Non solo: è compatibile con la stampa 3D, permettendo di “stampare” il gel insieme alle cellule al suo interno, una genialata che farebbe invidia a qualsiasi stampante domestica.

In questo entusiasmante studio, i ricercatori hanno impresso in 3D piccoli dischi di questo materiale e li hanno inseriti sotto la pelle di topi, giusto per fare un test – perché chi meglio dei roditori può insegnarci come curare le ferite? L’obiettivo ultimo è, naturalmente, sbarcare nell’ambito umano: l’idea è di raccogliere le cellule direttamente dal paziente tramite una minuscola biopsia cutanea, per poi coltivarle e stamparle in 3D come un innesto da applicare alla ferita. Una specie di “fai da te” scientifico con estetica hi-tech.

Junker spiega con entusiasmo: “Vediamo che le cellule sopravvivono e, guarda un po’, producono le sostanze necessarie per formare nuovo derma. Inoltre, negli innesti si generano vasi sanguigni, cosa fondamentale per tenere vivo il tessuto nel corpo”. Tradotto: non solo il gel accoglie le cellule, ma sembra anche voler ricreare un piccolo sistema di autostrade per i nutrienti, una feature che in altri contesti vorremmo magari vedere anche in certi uffici pubblici.

I vasi sanguigni, pure se in miniatura, sono la chiave di volta per decine di applicazioni futuristiche in bio-ingegneria. Fino a ora, coltivare cellule in materiali tridimensionali per creare organoidi – quei piccoli simulacri di organi veri – è stato paragonabile a costruire città senza strade: bello, ma impossibile da far funzionare. La mancanza di vasi sanguigni per portare ossigeno e nutrimento alle cellule è una vera rogna, il classico collo di bottiglia.

Fortunatamente, i ricercatori di Linköping sembrano un po’ più avanti rispetto al passato e, nella loro ricerca pubblicata su Advanced Healthcare Materials, descrivono un metodo per creare fili da un materiale fatto per il 98% di acqua, alias un idrogel.

Daniel Aili ci informa con la perizia di un mago: “I fili di idrogel sono abbastanza elastici da poter essere annodati. Abbiamo anche mostrato che possono diventare mini-tubi, e attraverso questi tubicini possiamo pompare fluidi o far crescere cellule di vasi sanguigni”. In poche parole, hanno fabbricato dei microscopici flexi-tubi che potrebbero essere la chiave per costruire sistemi vascolari in organoidi.

Chiamateli pure mini-tubi o canali perfusibili, ma in fondo sono solo tubicini da laboratorio che promettono di spalancare nuove porte nella ricerca medica. Dopotutto, chi avrebbe mai pensato che l’acqua, da sempre la star delle bevande, potesse diventare l’ingrediente principale di un gel futuristico capace di salvare vite e forse, chissà, anche di stampare in 3D la nostra salute?

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