Un giovane di 37 anni proveniente dal Bangladesh è finito in manette a Mantova, con l’accusa niente meno che di arruolamento di ragazzi per commettere atti violenti o sabotaggi contro servizi pubblici, ovviamente tutto con finale terrorismo da copione.
L’indagine, una sorta di impresa eroica coordinata dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione-Ucigos e portata avanti dalle diligenti Digos di Brescia, Genova e Mantova, prende forma dall’analisi geek di uno smartphone sequestrato. La gomma del telefono, nazionale e straniera, ha svelato trame che si intrecciano con un altro filone investigativo: la condanna definitiva a carico di un giovane per associazione terroristica con legami oscuri a gruppi di matrice qaedista e talebana in Pakistan. Sì, proprio quelli lì che tutti conoscono bene.
Dalla copia forense del cellulare spuntano immagini ed evidenze da manuale di addestramento militare fai-da-te: tecniche di tiro con armi lunghe, come passare da un’arma lunga a una corta senza neanche perdere un colpo, e avanzamenti tattici degni di un action movie di serie B. Non è tutto: l’arsenale di materiali condivisi e la frenesia del personaggio raccontano di un’insistenza pedagogica con giovani aspiranti jihadisti, che va ben oltre la semplice propaganda su Facebook.
L’uomo non solo abbraccia a braccia aperte la versione più duro e puro dell’Islam radicale, ma direttamente incarna il dogma che fede e lotta armata debbano andare a braccetto, fino all’estremo sacrificio del martirio. Nel suo delirante progetto l’obiettivo è chiaro: infiltrare e distruggere dall’interno la società occidentale, usando la cosiddetta taqiyya, ovvero la dissimulazione come arma segreta. Il tutto senza badare troppo ai poveri civili “infedeli” (i kuffar, per i profani), che sono soltanto dettagli da sacrificare sul dulce fondo.
Il maestro della propaganda jihadista
Gli investigatori non si sono limitati a scovare video di addestramento e testi apocalittici: hanno scoperto il ruolo di insegnante del nostro protagonista. Dopo aver colto la fiducia di un giovane già condannato, si è dedicato a conoscere i dettagli della sua vita, della sua fede e cultura. Insomma, la versione islamica di un life coach per il terrore.
Nonostante il ragazzo avesse ammesso di non frequentare nessuna scuola coranica, ma di leggere piuttosto testi di Ali Jaber al Fayfi – ex attivista noto per i suoi legami con Al Qaeda – il nostro indagato si è subito offerto di fornire “libri religiosi per giovani”, promettendo addirittura di spedirli. Il tutto per creare un perfetto studente-scout da jihad, affinché potesse crescere e maturare nella dottrina estremista che tanto piace agli organizzatori di attentati internazionali.
Il maestro, concentrandosi esclusivamente sul tema del jihad, tiene il giovane attaccato alle sue parole, utilizzando frequenti riferimenti a figure di spicco del fondamentalismo qaedista e degli teorici che hanno ispirato le atrocità dello Stato Islamico.
Proprio così, nel ventunesimo secolo, l’arci-archetipo del terrorista non si limita a restare incollato a uno schermo, ma fa sfoggio di metodi “tradizionali”. Meno male, perché la modernissima intelligenza artificiale che adesso ci rende la vita difficile, ovviamente si piega anche a fini più… echi, diciamo così, non proprio da social innocenti. Tra le perquisizioni lampo collezionate, spicca il caso di un certo “radicalizzatore” che non si accontenta di cinguettare, ma agisce su più fronti, mettendo in scena tecniche ormai considerate vintage e decadenti da qualche brain specialist di turno.
Da notare, riferiscono con gran piglio i solerti investigatori, che sono ritornati con gran entusiasmo ai metodi collaudati. Sì, quelli dove la faccia conta più del pixel; il rischio è più tangibile, l’odore del rischio meno virtuale. Naturalmente, l’epocale svolta investigativa non si limita a mettere in sicurezza il territorio e a fermare l’imminente minaccia, ma insiste a investigare come un voyeur morboso, tentando di risalire alla fonte di tutto quel veleno disseminato nel tessuto sociale. D’altronde, che gusto ci sarebbe a fermare una bomba senza prima scoprire chi l’ha assemblata?
In questo affollato teatrino, la cosiddetta “disruption” non è una macchia di colore ma l’episodio d’apertura di un lungo, appassionante dramma poliziesco che continua con lo scopo di pescare i mandanti e rivelare la regia occulta della radicalizzazione violenta. Ovvero, non ci si accontenta di fermare il sipario, bisogna smontare tutto il palco.
Il ministro Piantedosi e il sistema di sicurezza: un cocktail perfetto di entusiasmo e retorica
Matteo Piantedosi, il volto rassicurante al comando del ministero dell’Interno, ha espresso la sua empatia per l’operazione di Brescia come un grande esempio di efficienza nazionale, che se non fosse per la frase fatta sarebbe quasi commovente.
Matteo Piantedosi ha detto:
“L’operazione condotta oggi a Brescia, che ha portato all’arresto di uno straniero accusato di arruolare giovani jihadisti, rappresenta una chiara dimostrazione dell’efficacia del nostro sistema di sicurezza nel prevenire e contrastare le minacce terroristiche.”
La frase, cucita addosso come un vestito su misura, continua a raccontare l’epopea di un’attività investigativa “complessa”, titolo che unisce come in una soap opera le questure di Brescia e Genova più un cameo di Mantova, orchestrate dalla centrale della polizia di prevenzione che, naturalmente, ha il ruolo di deus ex machina di questa produzione italiana di alta suspense.
Ovviamente, il plauso va a tutti gli eroi in divisa, un vero e proprio altarino alla «Polizia di Stato», che si autoproclama fiore all’occhiello nazionale e modello europeo. Insomma, la sicurezza che canta vittoria e promette che la convivenza civile sarà difesa a spada tratta, come se la paura fosse l’unica medicina per il vivere insieme.