Energia e sprechi: l’Europa punta 465 miliardi su elettronica di potenza e pensa davvero di risolvere così il futuro

Energia e sprechi: l’Europa punta 465 miliardi su elettronica di potenza e pensa davvero di risolvere così il futuro

Si può garantire davvero la competitività e la sicurezza europea senza puntare sull’elettronica di potenza? Alessandro Viviani di The European House Ambrosetti ci tiene a farcelo credere, presentando una delle solite analisi accattivanti proprio al Technology Forum 2025 di Stresa. Che cosa ci dice? Che per salvare la faccia nella transizione verde dobbiamo incensare questa tecnologia come il futuro salvatore della patria.

Secondo Viviani, l’aumento del 45% delle energie rinnovabili tra il 2010 e il 2022 non è solo un dato statistico, ma una scusa brillante per rivoltare il sistema elettrico europeo come un calzino. Peccato che il “profondo cambiamento” sembri piuttosto un déjà vu burocratico, annacquato in mille strategie che promettono tanto e realizzano poco.

Facciamo un po’ di chiarezza: il vero problema sarebbe una competitività da rincorrere a suon di decarbonizzazione, peccato però che questa “strategie per ridurre le dipendenze” somiglino più a esercizi di stile. È come dire “facciamo ecosystem forti e sostenibili”, mentre tiriamo fili e fili di debolezze e contraddizioni nella concreta realizzazione.

Ci raccontano che solo con una gestione unitaria – ovvero un governo europeo che sappia fare sul serio – questa roba di tecnologia, progresso e sicurezza diventerà reale. Dimenticando che in questo campo i soggetti in gioco hanno spesso più interesse a spartirsi la torta che a costruire un vero modello condiviso.

The European House Ambrosetti fa notare che senza l’elettronica di potenza, ovvero l’intelligenza artificiale del nostro sistema energetico, la transizione corre il rischio di diventare un colossale black-out di idee e risorse. E come biasimarla? Gestire flussi energetici, efficienza e risorse rinnovabili non è roba da poco; peccato che si rischi di trasformare una dipendenza tecnologica in una dipendenza strategica e di sicurezza, forse proprio ciò che si voleva evitare.

Il budget che affoga l’Europa nei prossimi 5 anni è impressionante: 1.550 miliardi di dollari saranno sparsi tra energie rinnovabili, stoccaggio e reti. Un bel pezzo di questa torta, dai 310 ai 465 miliardi, sarà destinato proprio all’elettronica di potenza. Non male come scommessa, vero?

Più interessante è però vedere la posizione dell’Europa nel mondo: seconda nel settore per export con 19,6 miliardi di dollari, dietro solo alla Cina che fa la voce grossa con 58,3 miliardi. Ma aspettate, non è tutto rose e fiori: l’importazione di queste tecnologie cresce più rapidamente dell’export – una crescita del 162% contro un 103%. La musica cambia e l’Europa sembra diventare più debitore tecnologico che protagonista.

Siamo di fronte a un dilemma geopolitico che suona come un avvertimento: i soliti aiuti di stato e il dumping commerciale stanno facendo saltare gli equilibri, e chissà se l’Europa avrà davvero la forza di non farsi travolgere. La scelta è tra accelerare e aggiornare radicalmente la politica energetica europea, o continuare a stare in panchina a guardare il match.

Se mai qualcuno si fosse chiesto come far giocare l’Europa nel campionato serio, la risposta è semplice: puntare sull’elettronica di potenza. Quel settore invisibile, sì, quello che nessuno si fila tranne chi sa davvero cosa manda avanti l’economia elettrica. Sarà lei, dicono a Bruxelles, a invertire il trend commerciale, generando fino a 705 miliardi di dollari di valore aggiunto tra il 2026 e il 2030. Tanto per capire la portata del miracolo, è un valore tre volte superiore alla crescita prevista del PIL europeo per il doppio triennio 2024-2025. Che parabola di ottimismo, vero?

E non basta: questa elettronica di potenza, che suona come un nome da film di fantascienza, in realtà è l’intelligenza artificiale del sistema elettrico – il guardiano che ci protegge da catastrofi cybernetiche sempre più frequenti, quelle “guerre ibride” di cui si parla tanto a cena ma si fa poco realmente.

Non controllare queste tecnologie significa essere nel mirino di sabotaggi fantasma, conosciuti come Deny of Service. In soldoni: se qualcuno decidesse di farci uno scherzetto, potremmo ritrovarci immersi in blackout pesanti, quelli capaci di mettere in ginocchio non solo il nostro impianto elettrico, ma tutto il sistema economico, sociale e democratico. Ma tranquilli, finché il cablaggio regge, possiamo dormire sereni.

Investimenti a nonsenso (ma con grandi numeri)

L’elettronica di potenza è il cuore pulsante della tanto decantata transizione energetica: nessuna generazione, stoccaggio, trasmissione o uso finale di energia sarebbe possibile senza di essa. Sta tutta lì, silenziosa e invisibile, a governare la catena del valore dell’energia. Quanto ci ha investito l’Europa? Parecchio, almeno sulla carta: tra il 2026 e il 2030 si prevede una spesa annuale di 62-93 miliardi di dollari. Niente male, se non fosse per quel lato oscuro costituito dal gigantesco deficit commerciale, con importazioni che negli ultimi dieci anni hanno divorato 28,8 miliardi in più rispetto alle esportazioni. Inoltre, mentre la nostra Cina da comodino aumenta i suoi export verso di noi dell’83% in un decennio, noi continuiamo a farci fregare mano a mano.

Uno squilibrio da far arrossire chiunque si professa leader europeo. Forse il problema sta nel fatto che, pur essendo la seconda economia mondiale per esportazioni, l’Europa non sa sfruttare il mercato interno, preferendo alimentare l’assuefazione da fornitori esterni, cosa che, come si sa, tanto noi adoriamo.

Un’analisi brillante di TEHA Group ci offre una lieta novella: un cambio di paradigma nelle catene di fornitura potrebbe ridurre le importazioni del 70% e aumentare le esportazioni del 50%. In parole più semplici, potremmo liberarci da questo cappio estero e arricchirci di 705 miliardi di dollari tra il 2026 e il 2030, senza spese pubbliche aggiuntive. Ovviamente, tutto ciò richiederebbe uno scatto strategico alla leadership tecnologica europea, roba che, fino ad oggi, è rimasta più una speranza che una realtà tangibile.

La Cina, quel gentile concorrente che ci fa un piacere

La vera ciliegina sulla torta è la Cina, che non solo ci fa da concorrente globale numero uno nel settore delle tecnologie per la transizione energetica, ma lo fa con stile. Tra il 2015 e il 2022, si è regalata sussidi per 1,2 miliardi di dollari diretti all’industria elettrica – mica bruscolini – accompagnati da politiche di sostegno per tutte le filiere tecnologiche correlate.

Se pensate che l’Unione Europea sia indietro, tenetevi forte: gli investimenti cinesi in ricerca e sviluppo sono stati 3,2 volte superiori ai nostri. E se questa non è una sberla nelle facce dell’Europa, allora non sappiamo cosa lo sia.

Grazie a questo arsenale finanziario, la Cina è riuscita non solo a ridurre drasticamente i costi delle tecnologie, ma anche a diventare la regina dell’innovazione e dell’anticipazione dei trend di mercato, mentre noi a Bruxelles giochiamo il solito tiro alla fune tra burocrazia e inconcludenza.

E che sorpresa: Pechino, con la sua fabbrica planetaria, sta prevedendo per il 2030 una domanda interna che sarà minore della sua stessa capacità produttiva. Tradotto: smetteranno di vendere solo a casa loro e inizieranno a buttare tonnellate di tecnologia in giro per il mondo, aumentando la pressione su quei poveri mestieranti del vecchio continente. Un vero disastro annunciato per le industrie europee che, guarda caso, ancora si affidano a soluzioni che stanno diventando vecchie prima ancora di nascere.

Quindi, caro lettore, la bevanda europea per svegliarsi da questo torpore consiste nel “rafforzare capacità produttive e catene di approvvigionamento”. Niente meno. Non un semplice obiettivo economico, badate bene: è una priorità strategica per la nostra amata sicurezza, competitività e autonomia tecnologica. Già, perché rimanere dipendenti da tecnologie estere è funzionale solo se ami il brivido dell’incertezza.

Un report firmato dal TEHA Group ci ricorda l’ovvietà che ormai è necessario abbracciare un approccio chiamato “Total Security”, che a quanto pare deve infilare un po’ di tutto — militare, economico, tecnologico ed energetico — in modo da garantire la sacra protezione delle infrastrutture critiche europee. Strano che nessuno ci abbia pensato prima, eh?

La filiera europea dell’elettronica di potenza? Quel must-have praticamente ignorato fino a oggi, ma ora diventato presidio centrale per la transizione energetica e la sicurezza energetica dell’Europa futura. Roba da colpire sul serio, sennò rischiamo di diventare il fan club numero uno… della Cina.

Le proposte di un’illuminata Ambrosetti

Che cosa fare? Beh, TEHA ha deciso di illuminarci con alcune proposte da antologia per centralizzare l’elettronica di potenza nei grandi dibattiti europei sulla transizione verde. Perché, ovviamente, fino a ora nessuno aveva pensato che questa tecnologia possa essere la chiave per la sostenibilità e la competitività. Evidentemente la politica è rimasta a guardare mentre la Cina faceva il suo gioco.

Secondo queste proposte, bisogna smettere di sottovalutare quelle infrastrutture che garantiscono «intelligenza», operatività ed efficienza alle reti energetiche, anche se finora il Net Zero Industry Act ha preferito ignorarle bellamente. La soluzione? Mettere mano alla normativa europea e far sì che l’elettronica di potenza venga sdoganata come tecnologia strategica. Così potremo finalmente sostenere lo sviluppo industriale europeo e forse, dico forse, recuperare un po’ di terreno sullo scacchiere globale.

Ma non finisce qui: si suggerisce anche di introdurre criteri ESG obbligatori (sì, gli amati criteri ambientali, sociali e di governance) per chi vuole giocare nel mercato europeo. Immaginate un po’: premiamo chi è “meno sporco” e penalizziamo chi invece fa del mascalzonismo industriale il proprio core business. Tra idealismo e utopia, è una buona scusa per dire “facciamo finta di essere seri”.

Ah, e la seconda proposta? Far sì che la sicurezza europea includa a pieno titolo queste infrastrutture energetiche nel sacro libro bianco per la difesa europea – il White Paper for European Defence – Readiness 2030. In pratica: metaforicamente, stiamo parlando di maritare economia ed esercito, perché ormai dipendere da tecnologie chiave straniere è come uscire senza ombrello durante un uragano.

Naturalmente, spingono pure per abbassare quella soglia imbarazzante del 50% di dipendenza imposta dal Net Zero Industry Act, quasi a dire “vogliamo davvero poter contare su di noi”. Raccomandano anche l’inserimento di criteri “no-price” (resilienza, sostenibilità, cybersecurity) nei meccanismi di supporto. Insomma, un’esplosione di belle parole per dare senso a tutto questo rumore di fondo.