Da ben 12 anni ormai vive un incubo digitale degno di un thriller a basso costo. Nel 2013, un gruppo di hacker ha deciso di fare “shopping” nel suo cloud personale, rubandole un video intimo girato con il fidanzato di allora. Quel filmato privato, che avrebbe dovuto restare tale, invece è finito sulle piattaforme più disgustosamente sessiste del web, frequentate da migliaia di uomini con gusti a dir poco discutibili.
La storia? Tragicamente banalizzata dalla realtà odierna. Per questi 12 lunghissimi anni, la giovane è stata perseguitata non solo online ma anche nella vita reale. Alcuni di quegli stessi uomini, veri e propri stalker digitali, l’hanno avvicinata per strada e persino sul posto di lavoro, chiedendole con una sfrontatezza che sfiora l’assurdo altre foto “a luci rosse”.
Tra le richieste più grottesche, la ragazza racconta di aver ricevuto inviti per immagini che coinvolgono anche figure paterne accompagnate da bambini di appena cinque anni. Un dettaglio che dovrebbe far rabbrividire qualunque normale cittadino, ma che invece sembra scivolare via nell’indifferenza generale.
In un’intervista rilasciata ad un programma televisivo, la vittima non ha risparmiato un’amara riflessione sul clima tossico e omertoso che circonda il sostegno alle vittime di siti sessisti. Una lotta solitaria, incomprensibilmente ignorata o minimizzata da chi dovrebbe tutelare la dignità delle persone e garantire una rete più sicura per tutti.
Che dire? Una vicenda che mette in luce non solo la pericolosa facilità con cui il nostro privato viene violato, ma anche l’assurdo silenzio protratto da istituzioni, società e media. Una testimonianza che scuote, ma non abbastanza da far scattare la vera rivoluzione contro questo sistema marcio e colpevolmente complice.