Finalmente arriva il nuovo Documento programmatico di finanza pubblica, la versione ultra-evoluta della vecchia Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, quella fantastica guida che dovrebbe illuminare la prossima legge di Bilancio. Atteso con trepidazione nel consiglio dei ministri di giovedì sera, questo capolavoro riduce al minimo le aspettative di crescita per il 2025: la ricchezza nazionale, infatti, si accontenterà di un modesto +0,5% invece del più ambizioso +0,6% previsto solo pochi mesi fa. E non finisce qui: per l’anno prossimo, il Prodotto Interno Lordo non piegherà la testa al +0,8% previsto in primavera, ma si dovrà far bastare un gioioso +0,7%.
Ma non preoccupatevi, ci sono buone notizie se amate i deficit. Rispetto ad aprile, quando si ventilava un disavanzo del 3,3% per quest’anno e del 2,8% per il prossimo, il nuovo oracolo politico prevede che l’Italia riuscirà a far scivolare il deficit sotto il fatidico 3% già nel 2025. Una vera conquista epocale, capace di farci uscire dalla dannata procedura di infrazione europea per deficit eccessivo con un anno di anticipo sul calendario ufficiale. Potremmo così chiamare a raccolta la clausola di salvaguardia per mettere ancora più soldi nella difesa, perché, s’intende, noi preferiamo spendere in armi piuttosto che sistemare altro. Peccato che il debito pubblico viva un destino diverso, una tragedia greca che neanche Sofocle avrebbe previsto: secondo le previsioni di Morgan Stanley, il debito salirà a un vertiginoso 139,7% nel 2026, abbandonando ogni illusione di stabilizzazione e procedendo invece a testa bassa verso l’alto, come una mongolfiera impazzita.
Ma non finisce qui, perché c’è un dato che Bruxelles adora come fosse il nuovo Sacro Graal: la spesa primaria netta. A quanto pare, i numeri di questa grande spesa pubblica sono addirittura migliori del previsto, con un generoso margine di 8 miliardi. Fantastico, vero? Peccato che il nuovo Patto di stabilità invece di spronarci a festeggiare sostenga che questo “tesoretto” non sia un gruzzoletto da spendere come si vuole per finanziare la manovra. Le uniche risorse realmente utilizzabili, poveri noi, si limitano alle maggiori entrate strutturali ottenute con la lotta all’evasione fiscale. Tutto il resto? Beh, o si taglia la spesa o si inventano nuove tasse, no? Sempre più facile.
Il contributo straordinario dalle banche, un colpo di genio mai realizzato
E poi c’è il pezzo di bravura: il cosiddetto “contributo straordinario” ai danni degli istituti di credito. Il governo punta a raccogliere qualcosa tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro dalle banche, ma non illudiamoci troppo: anche stavolta si tratterà di un semplice anticipo di liquidità, niente più di un prestito coatto, non un vero e proprio prelievo extra. La definizione di questa impresa titanica è ancora in alto mare, da definire tramite una trattativa che segnerà tempi da bradipo e sarà influenzata dai risultati delle prossime elezioni regionali e, cosa ancora più importante, dai complessi equilibri interni alla maggioranza di governo.
Nel frattempo, la Lega non perde l’occasione per fare la voce grossa. Proprio mentre Antonio Tajani, leader di Forza Italia, chiedeva alla sua festa di partito di evitare misure da “partito comunista”, Salvini e i suoi hanno pubblicato una nota tremendamente piccata affermando che “nei tre anni di nostro governo le banche hanno accumulato utili per circa 130 miliardi, quadruplicando il loro valore in borsa”. Non male come merito, vero? La Lega ha persino calcolato che il possibile contributo richiesto alle banche potrebbe arrivare a 5 miliardi, praticamente una mancia nel confronto del loro bottino reale.
Ah, l’eterna farsa delle “enormi rendite da interessi e commissioni” che magicamente dovrebbero trasformarsi in salari più alti, pensioni più pesanti, investimenti mirabolanti nella sanità e, ovviamente, una nuova versione in salsa legislative della famosa “rottamazione” delle cartelle esattoriali. Naturalmente, i valorosi esponenti di Forza Italia alzano i muri e negano con un sorriso di circostanza il solo concetto di extraprofitto, come se fosse la febbre del lunedì mattina.
Al centro del circo politico, la manovra punta tutta su un altro episodio dello show Irpef, questa volta al centro del palco ci finisce il ceto medio, protagonista di mille promesse e battaglie non proprio vinte. Per la seconda aliquota – quella sui redditi da 28.000 a 50.000 euro, perché a chi guadagna meno o più chissene frega – si pensa di decurtare il pagamento dal 35% al 33%. Due punti percentuali, cioè meno di un caffè al giorno, ma ben più complesso di quanto sembri.
Non soddisfatti, si erano pure fatti venire l’idea bislacca di estendere tutto fino a 60.000 euro, ma l’ipotesi è già nel dimenticatoio: il conto salirebbe da 2,5 a 4-5 miliardi, come se spostare un misero 1% di italiani nel calcolo delle aliquote fosse così sostenibile. Ma tanto, anche se volessero, la “platea” dell’interesse nazionale cresce solo dello 0,7 per cento, giusto per non cambiare troppo il copione.
Nel frattempo, la nuova “rottamazione” delle cartelle esattoriali fa capolino, ovviamente in versione soft, addolcita rispetto al progetto originario di chi, da una Lega che si credeva rivoluzionaria, proponeva l’assurdo di 10 anni di pace fiscale con comode rate mensili per 120 mesi. Ora la proposta più plausibile – e già sognata dagli italiani più temerari – sarebbe una durata un po’ meno estesa di 8 anni e 96 rate, però solo per quegli “sfigati” con debiti modesti.
Non poteva mancare la voce di Antonio Tajani, che con la solita prudenza da oracolo di Delfi raccomanda: “Bisogna stare attenti”, perché, testuali parole, “quelli che hanno pagato non possono fare la figura dei fessi”. La saga continua con il sottosegretario leghista Claudio Durigon, che immancabilmente rammenta che la pace fiscale – cioè questa sorta di maldestra remissione di debiti – era impressa nel programma del centrodestra nonché, ciliegina sulla torta, un obiettivo sacro dell’immarcescibile Silvio Berlusconi. Insomma, un vero gioco delle parti, dove la coerenza è un optional e la faccia dura la regina incontrastata.



