Come sopravvivere a un incidente senza nemmeno un briciolo di giustizia: la mia storia da fantasma dimenticato

Come sopravvivere a un incidente senza nemmeno un briciolo di giustizia: la mia storia da fantasma dimenticato

Quando la sfortuna si ripete uguale ma con un finale tragico: a Milano una donna di 71 anni viene investita e uccisa da un’auto rubata guidata da due ragazzini rom. Stefania Livoli, 58enne romana, si rivede in quella tragedia perché a 21 anni ha vissuto un incubo molto simile, ma lei per fortuna è sopravvissuta.

“È stata esattamente la stessa dinamica,” racconta Stefania con amarezza, “solo che io non aspettavo un tram, ero davanti a una pasticceria. Quella ferita è riemersa con forza, e mi ha riportato indietro a quel giorno maledetto. Se non lo provi sulla tua pelle, non puoi capire davvero cosa significa. Il destino ha voluto che fossi lì, proprio in quel posto, e che accadesse proprio quello che è successo a me.”

Era il 22 ottobre 1988, un sabato mattina qualsiasi a Roma. Stefania aveva appena ordinato una torta di compleanno in una pasticceria di via Oderisi da Gubbio, vicino a viale Marconi. “Ho parcheggiato in seconda fila, ero di fretta, sono entrata e ho detto: ‘Torno dopo a prenderla’. Quello è l’ultimo ricordo nitido che ho.”

Quando uscì per aprire la portiera della sua auto, due ragazzini di 16 e 14 anni sbucarono a tutta velocità, diretti a bordo di una macchina rubata. “Avevano appena scippato una signora e stavano scappando. Hanno perso il controllo e mi hanno centrata in pieno.” Stefania non ricorda nulla dell’impatto. “Mi hanno detto che sono stata sbalzata più in alto di un camion e poi sono ricaduta rompendo il parabrezza. Avevo schegge di vetro infilate nella schiena, i piedi ridotti a pezzi, la spalla fatta a pezzi e un trauma cranico. Mi sono svegliata in ospedale e ho detto: ‘Mi è passato un treno sopra’.”

Cominciò così un lungo calvario di riabilitazioni e dolori indicibili. “Non ero in coma profondo, ma in uno stato di semicoscienza. Mi svegliavo e perdevo conoscenza all’improvviso, poi mi risvegliavo di nuovo.” I medici glielo dissero chiaramente: “Probabilmente il fatto di non vedere l’auto arrivare mi ha salvato la vita, perché non ho avuto il tempo di irrigidirmi.”

Naturalmente, nel corso della fuga, quei due delinquenti dilettanti investirono anche un’altra donna anziana, causandole gravi ferite al volto. “Le misero 50 punti, ma non denunciò per paura. Io invece decisi di farlo. Pensavo che la mia vita fosse finita lì, e che denunciare fosse la cosa giusta.”

La realtà giudiziaria però fu uno schiaffo in piena faccia. “Ricordo ancora bene la faccia di uno di quei minorenni mentre sedeva in aula, poco prima di entrare dal giudice. Mi dissero di mettermi una mano sulla coscienza, perché la mia denuncia avrebbe potuto rovinare il loro futuro: erano senza precedenti. Alla fine mollai.”

L’anno successivo vidi la sua foto sul giornale: quel ragazzino aveva legato un bambino a un albero e usato le sigarette come strumenti di tortura. Lo stesso poteva dirsi dell’altro giovane.

Facciamo un piccolo riassunto per chi si fosse perso il punto: una donna di 71 anni muore investita da un’auto rubata guidata da ragazzini minorenni, due di loro erano appena fuggiti dopo uno scippo; e questa tragedia ripercorre un incubo personale di una donna che a 21 anni è stata investita da analoghe circostanze, ma fortunatamente è ancora viva.

Ora, a questo punto, attenzione: in tribunale la “preoccupazione” principale è stata la sorte di quei “giovani incensurati,” non la triste fine di una donna o la salute di una sopravvissuta con un trauma devastante. Denunciare rischiava di rovinare il “futuro” di due fuggitivi senza alcun rispetto per la giustizia o per le vittime.

Se questa è la misura della nostra giustizia e della nostra società, forse è il caso di riflettere. Nel frattempo, a Milano, una signora non torna più a casa.

Ah, quel piacevole déjà-vu dell’indifferenza sociale: “Non è colpa di un bambino se nasce in un campo nomadi, se cresce allo stato brado”, ci ricorda con la dolcezza di chi “guardava dall’altra parte”. Peccato che qualcuno, a quanto pare, dovrebbe occuparsene. Ma perché preoccuparsi? Tanto, basta “chiudere un occhio”. E se lasciamo correre gli sbagli, questi poveri ragazzi diventano invincibili e ovviamente… impuniti. Geniale, vero?

La tragicomica vicenda non si è fatta mancare nemmeno il tocco hollywoodiano: qualche mese dopo il dramma, Stefania torna nella pasticceria di via Oderisi da Gubbio con il braccio ingessato. E chi trova lì? Nientemeno che Mario Brega, l’attore enorme – proprio come la sua empatia. Appena vede Stefania coperta da un lenzuolo bianco, lui, da buon spettatore commosso, si lascia andare alle lacrime, convinto che sia già andata oltre. Evidentemente, in quella strada, anche le stelle del cinema si trasformano in madri disperate, capaci di piangere più di un’intera famiglia ignorante e irresponsabile.

Ma andiamo avanti, perché la nostra eroina non ha alcuna pietà per gli alibi sociologici del secolo: “Sono madre,” dice severamente. “La scuola deve fare la sua parte, certo, ma l’educazione inizia a casa.” Oh, quanto è saggio! Ma non è finita qui: la vera chicca è che questi ragazzi, cresciuti senza regole e senza controllo, imparano il senso del limite solo sulla pelle altrui. Sicuramente, qualcuno dovrebbe andare a controllare che una considerevole percentuale di bambini in questi campi rom metta piede almeno dentro una scuola – un miracolo, ne converrete.

Quando le chiedono cosa direbbe ai figli della povera 71enne travolta, Stefania si emoziona e confessa: “Non è una disgrazia, è un omicidio.” Come se poi ‘omicidio’ fosse la parola preferita nelle scuole di pensiero odierne, e la giustizia, quella timida sconosciuta, ci regali ogni tanto un bis. Nel frattempo, rimane quella sfumatura amara di insoddisfazione: la donna non c’è più, e il tutto si riduce semplicemente a “essere nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Peccato che questa volta qualcuno abbia deciso che guidare un’auto a dodici anni fosse un hobby innocuo. Ah, la responsabilità dei grandi – così rara da trovare – che permette a ragazzini senza controllo di scorrazzare irresponsabilmente sulle strade.

Stefania, ovviamente, non si risparmia nel giudizio e confessa di essersi sentita profondamente sconcertata dalle parole di una madre dei quattro minorenni. Perché, a quanto pare, un semplice “ammetto di aver sbagliato” sembra un gesto astronomico in un mondo che preferisce delegare e negare, piuttosto che affrontare la realtà nuda e cruda. Peccato. Forse quella minima empatia avrebbe aiutato a lenire un dolore che nessun “mi dispiace” può davvero cambiare.

E il padre? Eh, beh, quell’uomo burbero che in famiglia non ne ha mai parlato, ma che, a quanto pare, ha vissuto l’incidente di Stefania come un trauma letale, un evento così drammatico da insinuare una malattia neurodegenerativa. Chissà, forse avrebbe voluto gridare contro quella definizione di “disgrazia”, rifiutando la banalizzazione di un evento che, per lui, rappresentava il più grande shock della sua vita.

Stefania, da parte sua, ribadisce la verità che tutti fingono di non vedere: “Da fuori, puoi solo immaginare; è vivendo certe esperienze che capisci davvero. Perciò ripeto, non si può parlare di disgrazia: è un omicidio. Qualcuno dovrebbe prendersi la responsabilità di quanto accaduto.” Ma sappiamo tutti com’è, meglio chiamare ‘disgrazia’ ciò che fa comodo, passare oltre e attendere la prossima tragedia, sperando che non coinvolga i nostri figli.

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