Come mettere all’angolo gli scarafaggi del credito privato mentre il panico contagioso dilaga

Come mettere all’angolo gli scarafaggi del credito privato mentre il panico contagioso dilaga

Ah, il meraviglioso mondo del credito privato: un settore dove i default non sono un incidente di percorso, ma parte integrante del gioco. Dopo l’allarme lanciato da Jamie Dimon, l’irreprensibile CEO di J.P. Morgan, che ha scoperto le sue “blatte” nascoste nei mercati privati, la finanza globale si è precipitata a spolverare le sue cassaforti. Le banche centrali, sospettose come sempre, hanno deciso che occorre tenere sotto stretta sorveglianza questo grumo di rischi potenzialmente contagiosi, con la fantomatica minaccia di una seconda crisi da mutui subprime del 2008 che aleggia come un fantasma. Ma davvero dobbiamo prenderci un colpo al cuore? Dipende, sostiene con la saggezza di un monaco Thomas Friedberger, vice CEO di Tikehau Capital.

Friedberger non si scompone: «Non dobbiamo preoccuparci dei default, perché nel credito privato, soprattutto nella parte ad alto rendimento, è normale che gli strumenti siano strutturati per essere rischiosi.» Un’affermazione perfetta per chi si diverte a scommettere sul bordo del precipizio. Anzi, lui lo dice chiaro e tondo: i default sono “normali”, e la vera sfida è come i gestori di fondi privati maneggiano questi fallimenti quando i tassi di insolvenza iniziano a salire. Secondo lui non siamo ancora allo scenario 2008, almeno per ora, ma senza rigore nelle strutture e nei covenant e soprattutto senza “gli stivali sul terreno” – da intendersi come presenza attiva e controllo sul campo – si rischia di affondare rapidamente.

Ecco che il settore finisce sotto i riflettori proprio grazie ai clamorosi crack di First Brands e Tricolor, due giganti americani che hanno costruito il loro castello di carte su strutture finanziarie talmente intrecciate da far sembrare un ragnatela un giocattolo. Prestiti basati su asset, finanziamenti ampiamente sindacati, debito privato… una torta indigesta per chiunque si fosse illuso che tanto esplodere non potesse. A riprova della serietà della situazione, la banca britannica Barclays ha dovuto annunciare una perdita di 110 milioni di sterline a causa dell’esposizione proprio verso Tricolor, mentre la banca d’investimento americana Jefferies ha confessato un’esposizione da capogiro di 715 milioni di dollari nei confronti di First Brands, tramite la sua unità Leucadia Asset Management.

Non sorprendono quindi i picchi di paura registrati dal Volatility Index del Chicago Board Options Exchange, detto anche “termometro della paura”, che ha toccato un quasi massimo semestrale a 25.31 lo scorso 16 ottobre, a dimostrazione che l’angoscia per altre possibili esplosioni nelle banche regionali USA è ben viva.

Jamie Dimon ha ammonito senza mezzi termini riguardo allo stress del mercato creditizio, durante la presentazione dei risultati trimestrali di J.P. Morgan:

“Quando vedi una blatta, ce ne sono probabilmente altre. Tutti devono essere avvertiti.”

Più pragmatici, o forse soltanto più esausti, gli strateghi macro di Nuveen Asset Management suggeriscono che tutto questo casino non è un’esplosione di bolla ma semplicemente la fase finale di un ciclo, in cui i rischi aumentano in modo disomogeneo. Occorre solo una gestione del portafoglio più attiva e una “differenziazione più affilata” tra i gestori. E poi, con questa metafora delle blatte ormai aleggiante, serve decisamente un po’ di “insetticida”.

Quando le banche centrali si danno da fare (o almeno ci provano)

La reazione dell’establishment non si è fatta attendere. La Banca d’Inghilterra sta preparando una revisione approfondita per capire come il mondo poco regolamentato del private equity e del credito privato possa influire sull’economia reale. Quello che vogliono scoprire è se questi mercati reggono anche in caso di turbolenze economiche e se rappresentano un rischio per la stabilità finanziaria complessiva.

Il governatore della BoE, Andrew Bailey, ha sintetizzato così il dilemma durante un’audizione parlamentare:

“La domanda cruciale è: siamo davanti a casi isolati o questi sono, come direbbe qualcuno, il canarino nella miniera di carbone? Insomma, ci stanno segnalando qualcosa di più fondamentale sul settore del finanziamento privato, sul credito e sul private equity? È una questione ancora aperta, sia qui che negli Stati Uniti, e dobbiamo prenderla molto sul serio.”

Bailey, tutt’altro che un novellino, ha anche ricordato come prima della crisi dei mutui subprime in molti liquidassero la questione come troppo piccola per essere sistemica — un errore clamoroso che in molti ora si sono fatti prendere ad imitare.

Anche in Germania non si dorme sugli allori: Joachim Nagel, presidente della Bundesbank e membro del consiglio direttivo della Banca Centrale Europea, ha lanciato un avvertimento severo sui “rischi di contagio” provenienti dal credito privato, ribadendo il bisogno di un’analisi fine e attenta.

Rischi sì, ma con qualche sorprendente margine di ottimismo

Friedberger da parte sua sottolinea un elemento spesso ignorato: l’allineamento degli interessi tra gestore e investitore. Nei prestiti diretti, spiega, i tassi di recupero possono variare da zero fino a superare il 100% del capitale investito. Una roulette russa, insomma, ma che se si gioca bene può riservare qualche sorpresa.

La stratega Laura Cooper ribadisce che il credito privato mantiene ancora fondamentali sani, un supporto tecnico robusto e rendimenti appetibili — il tutto a patto di irrigidire gli standard di sottoscrizione e monitorare con maggiore attenzione sia il modo in cui vengano impiegati i capitali, sia dove vengano investiti. Un po’ di buon senso finanziario che, dagli operatori tradizionali, forse ci si poteva aspettare prima.

Conclude saggiamente Cooper:

“Non è che le blatte siano ovunque, ma un po’ di insetticida non guasta.”

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