Caterina Malavenda spiega come ho salvato i cronisti dai guai giudiziari che loro stessi si trascinano

Caterina Malavenda spiega come ho salvato i cronisti dai guai giudiziari che loro stessi si trascinano

Se vi è mai passato per la testa di denunciare un giornalista dopo aver pensato di aver subito un danno, sappiate che se il suo avvocato è Caterina Malavenda, siete praticamente spacciati. Non solo perché è una delle legali più abili e preparate in circolazione, ma perché ha una concezione della libertà di stampa che non è solo coriacea, è un vero e proprio fendente legale, spesso inesorabile.

Non si fa scrupoli, nemmeno con i propri clienti, conosce i limiti delle cause meglio di chiunque e sa perfettamente quando e come infrangerli, a costo di rischiare tutto per ottenere il risultato che vuole. Proprio per questo il suo libro E io ti querelo, edito da Marsilio, è molto più di un puerile manuale legale: è un vero e proprio romanzo giudiziario che dipinge con vigore e disincanto dieci processi emblematici, quelli che lei considera il riflesso più nitido del complicato rapporto tra informazione e potere.

In fondo, quei processi non sono altro che uno specchio impietoso del nostro Paese, dove fare il cronista — che si tratti di politica, economia o cronaca nera — è spesso una specie di supplizio, un fastidio per chi preferirebbe rimanere indisturbato dalla cruda realtà.

Malavenda non si fa illusioni e, già nella premessa, si concede una riflessione tagliente:

«Non ricordo più quanti giornalisti ho difeso, e proprio grazie a questa lunga esperienza posso affermare con certezza che l’andamento e, soprattutto, l’esito dei processi che li coinvolgono sono l’indicatore più affidabile dello stato reale della democrazia in Italia. La democrazia, infatti, funziona solo se notizie, critiche e polemiche circolano liberamente, permettendo al pubblico di sapere, capire e farsi un’idea di ciò che accade quando ne ha bisogno. Tutto questo è possibile solo se quella stessa democrazia garantisce un’informazione senza interferenze o pressioni. E il modo più subdolo e infido per intimorire un giornalista scomodo è senza dubbio quello di trascinarlo in tribunale con accuse di diffamazione.»

Non aspettatevi dunque un manuale di diritto condito da formule scontate, piuttosto un’affilata cronaca in cui giustizia e carta stampata si scontrano in dieci battaglie giudiziarie che mettono a nudo le fragilità di un sistema che fa finta di difendere la libertà di stampa mentre sotto sotto la strozza e la soffoca nel silenzio di cause infinite.

Malavenda riesce a tessere con i suoi clienti: un rapporto fatto di continue, quasi esasperanti richieste di «pezze d’appoggio». Quelle imprescindibili prove che dimostrano, con elegante certezza, che il giornalista ha fatto il suo mestiere — talvolta inciampando nell’errore — ma con l’onestà di chi vuole solo e rigorosamente informare lettori, ascoltatori e spettatori nella maniera più completa possibile. Insomma, lui va oltre l’apparenza, ricostruisce con una trasparenza che il cittadino medio non scorge ma meriterebbe di conoscere.

Ogni vicenda diventa il palcoscenico di un rapporto — spesso burrascoso — tra l’avvocato e il suo assistito: accesi dibattiti, divergenze strategiche, compromessi più o meno amari, ma sempre giunti grazie a un confronto aperto e, almeno in teoria, leale. Quella scena da film in cui l’imputato rinuncia alla prescrizione e il difensore, con un sorriso di circostanza ma tanta rassegnazione, si adatta al volere del cliente. Oppure quando è proprio l’avvocato a spuntarla, conscio che la strada è un budello e la soluzione una sola possibile.

Ogni capitolo si dedica poi a un giornalista, raccontando il processo in ogni sua snervante fase, e raccontando lo scontro spesso feroce con le controparti. Dal racconto emerge la complessità dell’impresa quando Malavenda osserva:

«Il dilemma del giornalista su cosa pubblicare e cosa tacere è una questione senza facile soluzione. Specialmente quando il silenzio può danneggiare lui, mentre la sua penna può mettere in difficoltà altri. La mia ricerca di un equilibrio giusto è ancora aperta, e non sono sicura di trovare mai una risposta che mi soddisfi pienamente. Ma sono convinta, e non me ne vergogno, che al minimo dubbio la cosa migliore sia fermarsi e ricordare le parole di Gesù: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Matteo 7, 12). O, più semplicemente, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te o alle persone a cui tieni. Funziona, secondo me.»

La parte più irresistibilmente affascinante, però, è quella che riporta alle atmosfere sferzanti di Tangentopoli, quando Malavenda ha avuto il privilegio di lavorare con il suo maestro, Corso Bovio. Dall’esordio nel mondo legale fino alla scomparsa del suo mentore, il loro rapporto era più di un semplice sodalizio professionale, come si comprende da ogni pagina ricca di attenzione e rispetto. Lui, uomo dei primi anni Ottanta nella severa Milano, non le fece mai pesare di essere una donna del Sud, una combinazione che allora avrebbe potuto essere un vero problema in un ambiente da bastioni maschili, ma che lui affrontava con tutta la calma del mondo.

E come non ricordare la tempesta che sconvolse la procura di Milano, abbattendosi su politici, imprenditori e manager? In quei roventi anni, Malavenda non era solo la difensore: era un’ombra più complessa. Oggi confessa:

«Ancora mi vergogno un po’ di aver fatto cose che il mio ruolo non prevedeva, e mi pento di non aver deciso sempre come avrei voluto. Ho persino aiutato, in quegli anni, chi doveva andare in carcere a preparare la valigia, scegliendo cosa poteva entrare in cella. Ricordo gli sguardi increduli e spaesati di chi scopriva che pipa, tabacco, dentifricio o schiuma da barba non erano ammessi. Nessuno era pronto a quella prova: tanti non l’avevano nemmeno preventivata, qualcuno non ce l’ha fatta e si è tolto la vita. Oggi sembra impossibile che tutto ciò sia avvenuto, ma è la cruda verità. Ed è incredibile che certe persone, costrette a vivere in cella, abbiano mantenuto, contro ogni logica, un filo di ironia e la voglia irresistibile di far sorridere, anche parlando di temi così tremendi.»

Con il suo libro, Malavenda si congeda con una dichiarazione che sa di sentenza morale: si dichiara «grata alla vita». Una gratitudine che, guarda caso, i suoi clienti certamente le riconosceranno, dato che non è certo il tipo da fare sconti.

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