Big Oil alle prese con scelte difficili: i mega profitti diventano solo un ricordo

Big Oil alle prese con scelte difficili: i mega profitti diventano solo un ricordo

Insomma, dopo aver coccolato azionisti con dividendi gonfi e riacquisti di azioni da capogiro – considerati il dessert più gradito rispetto alla “carne” dei dividendi – ora si mettono la cravatta e si preparano al sacrificio, o almeno così dicono.

Maurizio Carulli, attento analista energetico di Quilter Cheviot, ha spiegato con grande delicatezza che questa generosità sta diventando poco sostenibile, e che mantenere alti i riacquisti a discapito di un bilancio sano apre le porte a debiti ben poco salutari.

Da qui le mosse di BP e di TotalEnergies, che hanno ridotto i loro famigerati riacquisti di azioni rispettivamente da 1,75 miliardi a 750 milioni di dollari e hanno rallentato il ritmo per “affrontare l’incertezza economica e geopolitica”. Tradotto: pazienza, si diventa meno generosi coi soci.

Thomas Watters, capa settore petrolifero di S&P Global Ratings, ha fatto eco a quest’atmosfera da “tutti in bolletta”: con i prezzi del petrolio che potrebbero ancora scendere sotto i 50 dollari il barile, grazie alle manovre di OPEC e all’accumulo di giacenze mondiali, non rimane altro che tagliare tutto quello che si può, compresi gli investimenti.

Se tagliare i dividendi è un tabù che manderebbe Wall Street nel panico, come ci ricorda con la delicata diplomazia di un elefante nella cristalleria Clark Williams-Derry dell’IEEFA, la strategia più “indolore” per i colossi petroliferi è proprio quella di ridurre i buyback. In fondo, agli investitori piace il dividendo, che è il vero “piatto forte”, mentre i riacquisti sono solo la salsa.

Interessante notare che proprio la superpotenza saudita Saudi Aramco ha infranto il tabù all’inizio dell’anno, tagliando il suo dividendo faraonico. Un gesto che pesa non solo sull’outlook del petrolio ma anche sul morale degli azionisti. Evidentemente, neppure il gigante degli idrocarburi è immune alla realtà del mercato.

Insomma, finito il boom da guerra, i grandi magnati del petrolio si trovano davanti a tre grosse domande. La prima: continuare a incassare profitti astronomici come se niente fosse? Sogno irrealistico. La seconda: ridurre i pagamenti agli azionisti o tagliare linee di investimento? Terza: come bilanciare la sacralità del dividendo con la crudele necessità di una contabilità più sana?

In sostanza, la festa è finita. E i magnati non possono nemmeno più nascondersi dietro la scusa “i profitti sono da record” per comprarsi l’indulgenza degli azionisti. Benvenuti nell’era della sobrietà per il petrolio, un luogo dove le decisioni facili e le tasche gonfie sono solo un ricordo del passato.

Ah, il dilemma eterno delle compagnie petrolifere: come finanziare i lauti compensi agli azionisti senza scatenare un’epidemia di mal di pancia tra gli investitori? Prendere a prestito danaro? Ridurre i riacquisti di azioni, quel piccolo trucco che gonfia i valori di borsa? O forse tagliare le trivellazioni, lanciando un segnale subliminale di produzione in declino? Williams-Derry ci illumina con il suo entusiasmo: ogni opzione è un capolavoro di rischio e scontento garantito.

Una vera tortura per gli strateghi di Wall Street, costretti a scegliere tra il male minore ormai patinato di narrativa aziendale. Ma tranquilli, sarà uno spasso vedere chi si offenderà di più, mentre i dividendi si navigano tre mari di incertezza.

Lo splendore inatteso di Big Oil: un dramma meno drammatico

Non tutto il panorama petrolifero è tetro come prometteva l’Apocalisse tariffaria di Trump. Peter Low, visionario co-responsabile della ricerca energetica presso Rothschild & Co Redburn, via videochiamata a CNBC, ci regala una sorpresa degna di un colpo di scena teatrale: l’”anticipato eccesso di offerta” tanto sventolato si è rivelato una fiaba da baraccone.

Prezzi del greggio robusti come non si vedeva da tempo, resistendo nel magico intervallo tra 65 e 70 dollari al barile, con il tanto temuto tracollo che fatica a fare capolino.

Beh, adesso le quotazioni hanno preso un leggero abbaglio, scendendo sotto questa soglia magica, e i futures del Brent con scadenza a dicembre si sono concessi un modestissimo rialzo dell’1,4%, a 63,61 dollari, mentre il West Texas Intermediate ha replicato il risvegliarsi con un simile aumento, a 59,77 dollari. Pippo, Pluto e Paperino a Wall Street ringraziano.

Ma veniamo alla vera domanda filosofica che tormenta il quarto trimestre: quanto dovranno sacrificare distribuzioni e riacquisti per adattarsi alla nuova realtà del prezzo debole delle materie prime? Una questione che il nostro Low ci offre con una saggezza da oracolo, suggerendo che la terza trimestrale è stata tutto sommato decorosa e che il prossimo trimestre sarà il gran ballo delle revisioni strategiche di portafoglio.

Una stagione di bilanci che vedrà protagonisti nomi illustri come TotalEnergies e Shell il 30 ottobre, pronti a lasciare il palco a Exxon Mobil e Chevron il 31, mentre BP rifletterà sulle sue medaglie e cicatrici il 4 novembre.

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