La società civile italiana sembra affetta da un’indifferenza contagiosa, mentre la politica preferisce dedicarsi a un’antimafia vuota e verbosa. Sono passati 34 anni dalla tragica morte di Libero Grassi, l’imprenditore che osò sfidare Cosa nostra nel 1991 rifiutandosi di pagare il pizzo e denunciando pubblicamente il racket estorsivo. Ora, la sua figlia Alice ci offre una fotografia mordace e deludente: se davvero si volesse combattere la mafia, non servirebbero altre leggi, ma un’offerta concreta di alternative serie per toglierle terreno e manovalanza.
Alice Grassi non si stanca di ripeterlo: quella vittoria sarebbe possibile solo se agli abitanti delle aree degradate, dove i boss fanno il pieno di nuove leve, venissero proposte infrastrutture, scuole e opportunità reali — non mere parole o promesse al vento. Vent’anni dopo la morte del padre, la città di Palermo sembra pericolosamente immunizzata dal ricordo e dal senso di urgenza.
La storia insegna: dopo l’omicidio di suo padre e le stragi di Falcone e Borsellino, Palermo ha reagito con un ritardo che sa quasi di resa. Certo, ha avuto qualche sveglia grazie ai ragazzi di Addiopizzo che, come moderni paladini, hanno persuaso i consumatori a sentirsi parte attiva della resistenza contro la tirannia mafiosa.
Ma quell’anima combattiva, quell’onda emotiva scatenata dalle morti in strada, ora si è consumata fino a diventare un ricordo sbiadito. Oggi si accumula un complice torpore, mentre la mafia si guadagna sempre più una sorta di serafico “passatempo” da disinteressati. Molti cittadini si illudono che il fenomeno sia ormai sopito, relegato a un capitolo chiuso della storia criminale del nostro Paese, solo perché la violenza e le pallottole sembrano un ricordo lontano.
Alice Grassi denuncia senza peli sulla lingua: la mafia è più viva che mai, non solo a Palermo, ma anche nelle città benestanti del nord, attratta da soldi e affari. A Palermo, la tradizionale rete di botteghe artigiane e negozi storici è stata spazzata via da catene di distribuzione di massa e franchising, rendendo la criminalità organizzata meno visibile ma non certo meno radicata.
E la politica? Qui il sarcasmo diventa amaro. Secondo Alice, essa conduce una lotta alla mafia fatta solo di discorsi piegati a una retorica vuota, un’antimafia “parolaia” senza azioni concrete.
Alice Grassi afferma:
“Cosa stanno facendo contro Cosa nostra? Il ponte sullo Stretto? La Sicilia non ha bisogno di un ponte, serve invece un serio investimento in strade, scuole, infrastrutture e una sanità efficiente. Quest’isola brama servizi reali. Palermo, poi, è un concentrato di contraddizioni: mercati storici e attività artigianali sono spariti, lasciando spazio a un’offerta turistica che si limita a dolci tipici e cibo da fast food a cielo aperto. Davvero questa è la nostra eredità culturale?”
Dietro questa denuncia si nasconde la fotografia di una crisi culturale profonda, che supera di gran lunga qualsiasi tracollo economico. Palermo, e l’Italia in generale, non devono solo temere la mafia armata, ma soprattutto la mafia “invisibile”, quella che prospera nel silenzio, nell’indifferenza e nelle politiche inefficaci. In una guerra silenziosa, le armi più pericolose sono proprio l’apatia e le parole inutili.
Se pensate che lo studio e la cultura siano inutili perché, a quanto pare, l’unica cosa che conta nella vita è fare soldi—e chissenefrega da dove vengano—allora complimenti, avete lasciato campo libero alla mafia. Sorpresa! Proprio così. Per questo motivo, continuo a ripeterlo: le forze dell’ordine e la magistratura fanno un lavoro encomiabile, ma è dalle scuole che bisogna ripartire, proprio lì dove si dovrebbe formare per primo il senso di comunità.
Alice Grassi lo sottolinea con un tono che taglia come un coltello: le scuole devono essere “degne di questo nome”. Girando tra gli istituti per portare l’esempio di suo padre, ne ha viste di “terrificanti”. Pensate a banchi rotti, infissi da museo del degrado, palestre? Fuori discussione. Quegli studenti sono ospitati in condomini, si ritrovano con il cappotto addosso per non congelare nelle aule gelide. Insomma, istituti che cadono letteralmente a pezzi.
Se lo Stato decide di sparire nei quartieri più a rischio, beh, niente paura: Cosa nostra ringrazia e fa festa attirando giovani disperati come mosche al miele. Alternative valide al “facile guadagno” della mafia? No, grazie. A Palermo sembrano ancora incastrati nel tunnel di povertà e degrado che amplifica il problema anziché risolverlo.
Ora, dopo ben 34 anni, il sacrificio di suo padre sarebbe stato inutile? Macché. Libero Grassi fece un gesto clamoroso in solitudine, un gesto che avrebbe dovuto ispirare un’intera comunità. Voleva unire gli imprenditori contro l’usura mafiosa, ma allora non ci riuscì. Anzi, gli diedero pure del folle. Classico, no?
Quella celebre lettera al “Caro estortore”, invece, ha creato uno spartiacque. Alice Grassi spiega: quella denuncia pubblica ha tirato giù il sipario su una situazione evidente a tutti, ma che tutti avevano scelto di ignorare come fosse un brutto sogno da dimenticare. Da quel momento, i palermitani cominciarono a capire che si può decidere da che parte stare. Strano, vero?
Del padre, Alice non dimentica soprattutto un insegnamento fondamentale. “I soldi non servono per comprare cose inutili, ma per garantirsi la libertà di scegliere. Servono a essere liberi.” E di lui manca tutto: l’amico, il compagno di discussioni, la presenza costante con cui confrontarsi.
Durante le elementari, confessa, non amava andare a scuola. Il lunedì mattina, le maestre la tormentavano per sapere l’argomento della predica domenicale. Peccato che in famiglia loro non fossero particolarmente religiosi. Alle medie, con un gesto non proprio scontato per quei tempi, il padre la esentò dall’insegnamento religioso. “Essere libera”, ribadisce, “è ciò che papà mi ha insegnato.”