Il referendum e i quesiti secondo Andrea Lassandari, docente di diritto del lavoro all’Università di Bologna. Certo, come se il mondo avesse bisogno di un altro esperto per complicare la situazione del lavoro: esaminiamo le leggi che potrebbero essere modificate, l’attuale situazione e le conseguenze potenziali di tutto ciò.
Andrea Lassandari, che già non stava su un piedistallo, si trova ora immerso nella mischia dei referendum, forse sperando di riportare il “buon lavoro” in prima pagina. Ma perché mai la Cgil ha pensato di ricorrere a questo strumento? Certo, per dare la priorità al lavoro, che al momento è relegato in un angolo, nonostante l’articolo 1 della Costituzione galleggi lì come un pallone sgonfio. Chiediamoci: chi ha mai ascoltato le lamentele dei lavoratori nella politica, giusto? Evidentemente è il momento di bussare ancora una volta alla porta del governo, come se cambiare colore potesse risolvere i problemi strutturali della precarietà.
E per quanto riguarda gli interventi legislativi che hanno aiutato a creare questa precarietà? Già negli anni ’70 si avviò il declino, con la legge 285/1977 che, sorpresa!, tentò di regolamentare il contratto di formazione e lavoro. Da lì è stata una festa: la legge 863/1984, il pacchetto Treu nel 1997 e tanti altri scempi. Insomma, è come se avessero scritta una sceneggiatura per un film sull’agonia del lavoro, dove tutti gli attori principali sono i vari decreti e leggi a favore della flessibilità.
Ah, il Jobs Act, quel famoso pacchetto che ha ridefinito il concetto di “stabilità”. Cosa ha a che fare con questo referendum? Vuole abrogare il decreto legislativo 23/2015, sul contratto a tutele crescenti – un bel modo per dire: “perché dovremmo complicarci la vita con sanzioni illegittime in caso di licenziamenti quando possiamo semplicemente renderle più leggere?”.
E ora, il primo quesito: qual è la situazione attuale? Ma chi lo sa! Forse è ora di portare questa discussione in prima pagina, se solo qualcuno avesse il coraggio di esporre ciò che realmente accade. Ma per ora, basta così: continuiamo a girare intorno al problema, con la speranza che un giorno il “buon lavoro” non diventi solo un miraggio. D’altra parte, a chi importa davvero del destino dei lavoratori? È una questione di parole, non di fatti, giusto?
Ecco un’idea brillante: rafforzare le sanzioni rese incredibilmente più blande dal Jobs Act per chi licenzia un dipendente assunto dopo il 7 marzo 2015. Già, perché non reintrodurre il diritto di mantenere il posto di lavoro? Oggi, i lavoratori assunti dopo quella data possono dire addio alla reintegrazione salvo che non ci siano casi estremi, un po’ come vincere la lotteria. Se vincesse il “sì”, la protezione diventerebbe la primordiale, mentre l’indennità economica tornerebbe ad essere relegata al ruolo di comparsa.
Ma attenzione, il risarcimento massimo si ridurrebbe da 36 a 24 mensilità. Ma che tragedia, vero? Sì, perché il vero problema non sono le mensilità massime, ma l’azzeramento delle ingiustizie tra dipendenti nella stessa azienda e la possibilità di avere il diritto alla reintegrazione. Non sarà più possibile che il rientro al lavoro sia garantito solo a chi, dichiarato “vincente” in giudizio, è fortunato abbastanza da avere una data antecedente all’entrata in vigore del Jobs Act sulla lettera di assunzione. Una vera ingiustizia, insomma.
Passiamo al secondo quesito. Qui si parla di abolire i limiti massimi al risarcimento in caso di licenziamento ingiusto nelle piccole imprese. Un giudice avrà il potere di decidere l’entità dell’indennità, senza il limite fissato a 6 mensilità. Ma non scoraggiatevi! L’importo minimo non scenderà sotto le 2,5 mensilità. Un vero affare, non trovate?
Chiaro, non possiamo dimenticare il terzo quesito: i contratti a termine. Se prevalesse il “sì”, ci sarà sempre bisogno di una causale, a partire dal primo giorno. E non dimentichiamo di limitare la precarietà all’ingresso. Attualmente, l’obbligo di motivazione scatta solo dal tredicesimo mese di lavoro. Un bel modo di garantire lavoro sicuro, non è vero?
A questo punto, ci imbattiamo nel quarto quesito. Cosa cambierà se passerà? Emergeranno le responsabilità nel settore degli appalti privati. Se vincesse il “sì”, la responsabilità sarà sempre solidale: sia per il committente sia per la società appaltatrice, senza deroghe. Il dipendente dell’appaltatore insolvente, oltre all’indennizzo Inail, potrà chiedere al committente il famoso danno differenziale. Fantastico, non è vero? Già, perché chi non ha mai sentito parlare di responsabilità condivisa?
Infine, giungiamo al quinto quesito: il dimezzamento da 10 a 5 anni di residenza legale per un maggiorenne che richiede la cittadinanza. E se vincesse il “sì”? Oh, sorpresa, senza lavoro, la cittadinanza diventa più difficile da ottenere. Abbreviare l’iter non significa riceverla il giorno dopo, ma è un “sì” per la dignità di chi lavora regolarmente in Italia da un bel po’. E non dimentichiamo i figli minori che riceveranno la cittadinanza automatica prima di quanto avrebbero fatto se fossero semplicemente rimasti in coda.



