Assessore Vignale risponde con la delicatezza di un elefante in una cristalleria: «Lei non ha figli?» quando gli si chiede delle frequentazioni piuttosto… colorite dei suoi due figli, impegnati in un circolo che celebra il Duce, il Führer e, ovviamente, fa capolino l’antisemitismo. Pronto a strapparti il cuore con il suo paternalismo, aggiunge: «Sono solo ragazzi, 18 e 20 anni, e sono i miei figli». Ah, il tocco magico del sangue blu familiare. Che tenerezza davvero.
Se Vignale fosse un tranquillo cittadino che alle cene parla solo di calcio e meteo, nessun problema, affar suo. Ma no, è un esponente del governo regionale, di quella stessa compagnia politica che con severità riempie gli ufficiali comunicati contro quei «ragazzi» un po’ più giovani dei suoi, quei vagabondi che invece di laurearsi, delinquono o manifestano scandendo cori antisemiti. Ecco, io, sempre contribuente e fiero pagatore di tasse che finanziano anche il suo stipendio, sento di potermi permettere una parola in più.
Rispondo allora a Vignale: sì, ho un figlio. Ma né a diciotto né a venti anni si sognerebbe di inneggiare al Duce o al Führer – per non parlare di Stalin, Pol Pot o Putin, che so? Non dico che sia un educando modello, ma certe idiozie assolutamente no. Forse è questione di amicizie fellone, forse si perde la mano a scuola o in famiglia, magari qualche mela cade davvero lontano dall’albero… Ma scherziamo?
Essere genitori? Una vera tragedia moderna, un’impresa più ardua dell’atterraggio su Marte. Ti dicono “educa al rispetto, alla democrazia, al dialogo” e poi ti trovi i pargoli che rubano, uccidono o – ciliegina sulla torta – frequentano circoli neonazisti. Che poi, come fa un padre a capire che la lezione di educazione è andata a rotoli proprio quando il figlio sfoggia la camicia nera? Mistero della fede, o della genetica sbagliata.
Disgrazie strazianti, sicuramente degne della più profonda compassione umana.
Però, per favore, smettiamola con questa pietà familistica tutta italiana da quattro soldi: “sono solo ragazzi, hanno diciott’anni…” Ma stiamo scherzando? A diciott’anni si vota (e molto spesso con risultati degni di uno spettacolo tragicomico), si guida un’auto come se la vita fosse una corsa pazza, ci si sposano altrettanti drammi in salsa soap opera, e sì, si fanno figli come se fosse una questione da manuale.
E, dulcis in fundo, a diciott’anni si va pure in guerra, quindi non venite a raccontarci che sono troppo giovani per capirci qualcosa.
Goffredo Mameli, a vent’anni, aveva già scritto il nostro inno nazionale e, a 22, era morto per la Patria. Ma lasciamo da parte teatri eroici e poesia: un individuo di diciott’anni è, almeno in teoria, responsabile delle proprie azioni.
Dire che un diciottenne non è giudicabile per la sua “giovane età” è un paradosso colossale (forse dovremmo anche togliere loro il diritto di voto e la patente, giusto per coerenza).
La vera chicca è il delirio assolutorio del paternalismo e del mammismo — quei malati atteggiamenti tossici che vedono i figli come eterni bambini, sempre al riparo sotto l’ala protettiva di mammà e papino, immuni alle crudeltà della vita adulta.
Ecco a voi, il trionfo dell’immaturità perpetua: poveri, teneri figli, e poveri, disperati genitori.