Archivio Disarmo sorprende: le fantomatiche Colombe d’oro della pace 2025 vanno ai supereroi dell’informazione di Gaza

Archivio Disarmo sorprende: le fantomatiche Colombe d’oro della pace 2025 vanno ai supereroi dell’informazione di Gaza

Il sipario si è alzato presso la Federazione Nazionale Stampa Italiana per la solita parata di solidarietà al Premio giornalistico internazionale Archivio Disarmo – Colombe d’oro per la pace 2025. Il 18 ottobre prossimo a Roma, il premio per la sezione mass media verrà consegnato, udite udite, a tre giornalisti palestinesi: Aya Ashour, ex corrispondente da Gaza per Il Fatto Quotidiano fino a giugno 2025, e poi Alhassan Selmi e Fatena Mohanna, ancora intrappolati a Gaza in attesa di visto per l’Italia — perché evidentemente la burocrazia europea è più lenta di un colpo di cannone. Nel caleidoscopio tragico della guerra di Gaza, un capitolo a parte spetta alla questione “giornalisti-martiri”: da ottobre 2023 a oggi, oltre 200 operatori dell’informazione sono stati falciati, un numero che definire spropositato è un eufemismo, superando persino le vittime giornalistiche di entrambe le guerre mondiali.

Ecco le perle recenti: la prima vittima è stata Anas al-Sharif, reporter di punta di Al Jazeera, subito bollato dagli israeliani come burattino di Hamas — perché si sa, il miglior modo per tacitare un giornalista è additarlo come spia. La seconda strage, un capolavoro di precisione militare, è stato il famigerato “double-tap” sull’ospedale Nasser, dove un doppio bombardamento ha spazzato via 22 persone, tra cui 4 operatori sanitari e 5 giornalisti precipitatisi sul posto dopo il primo colpo. Sicuramente un modo gentile per dire “non ci interessa cosa raccontate”.

L’algoritmo israeliano sembra ormai programmato per zittire qualunque voce decisa a mostrare la verità sulla carneficina a Gaza. Non solo chiudendo la sede di Al Jazeera in Cisgiordania, ma vietando l’ingresso persino ai media occidentali. Chiaramente, i giornalisti di casa nostra e quelli americani sono i più temuti: il rischio che mostrino il blocco degli aiuti essenziali, gli spostamenti forzati di popolazione o, più semplicemente, l’assassinio sistematico di civili, fa sudare freddo chi dirige la macchina militare di Tel Aviv.

Fabrizio Battistelli, presidente di Archivio Disarmo, ci illumina con una verità ovvia: “Da sempre in guerra gli eserciti tentano di rallentare e pilotare il lavoro dei giornalisti. Ma prenderli di mira con questa ferocia è inedito. E che un esercito ‘regolare’ decida di estendere i combattimenti alla popolazione civile è da scuole di strategia dell’assurdo.”

Dulcis in fundo, il (+) segno di civiltà: grazie al rettore di Siena, Tomaso Montanari, che con un colpo di bacchetta magica ha ottenuto dal ministero degli Esteri il visto necessario per la povera giornalista gazawi Aya Ashour, consentendole di atterrare finalmente in Italia e studiare da noi — ovvero, benvenuta nel paradiso della libera informazione, se riesci a varcare i cancelli burocratici.

Tomaso Montanari ha voluto condividere il suo pensiero:

“In questo momento drammatico, questo premio ad Aya Ashour e agli altri due giornalisti palestinesi non è solo un riconoscimento ai loro meriti personali. È soprattutto un gesto necessario per sottolineare l’urgenza vitale di difendere la verità e la libertà di cronaca in una delle zone più martoriate del mondo.”

Riassumendo: si premiano quei coraggiosi che rischiano la pelle per raccontare orrori che tutti preferirebbero ignorare, mentre dall’altra parte si agisce sistematicamente per cancellare ogni parola scomoda. Benvenuti infinitamente nel kafkiano teatro del giornalismo di guerra contemporaneo.

È sempre una gioia confrontarsi con le delicate questioni della libertà di stampa in zone di conflitto, vero? Aya Ashour ce lo ricorda con il suo racconto dal cuore del genocidio, ovvero da quel capolavoro di normalità che è la situazione a Gaza. Ovviamente, in ballo c’è “la nostra stessa libertà, la nostra democrazia”. Come se a qualcuno fosse sfuggita questa piccola banalità. Il premio ricevuto? Beh, serve a dimostrare che abbiamo finalmente capito. O almeno così ci piace pensare.

Però Aya ha il coraggio di sottolineare alcune realtà un po’ meno piacevoli, come il diritto all’informazione sistematicamente calpestato, soprattutto per chi fa il giornalista a Gaza e in Cisgiordania. Difficoltà e sofferenze? Un eufemismo, sembrerebbe. Senza dimenticare il diritto all’educazione, che a quanto pare è diventato un lusso quasi proibito in quei territori. Bambini e studenti che cercano disperatamente di studiare in mezzo a tutto quel caos. A salvarci dal baratro, naturalmente, dovrebbe essere “l’opinione pubblica internazionale”, la potente entità che, con un po’ di buona volontà, potrebbe spingere i governi a dire basta alla guerra. Speriamo non leggano solo i manuali di filosofia politica.

Nel frattempo, dal nord di Gaza, arriva la testimonianza di Alhassan Selmi, il cui ottimismo è contagioso quanto un raffreddore a gennaio. Ci ricorda che questa “Terra santa appartiene a tutti” e che, miracolosamente, dovrebbe essere possibile viverci in pace. I giornalisti locali? Bersagli ambulanti, naturalmente. Da qui l’incertezza più totale: Selmi non sa se riuscirà a lasciare il conflitto abbastanza in fretta da raccontare la sua verità all’Italia o se sarà un razzo a impedire ogni messaggio. Ma niente paura, il messaggio di pace “non morirà”. Perché, si sa, la pace è così tenace da non poter essere uccisa. Almeno secondo lui. In fondo, cosa accetterebbe questa terra di pace se non amore e serenità? Un vero poema in versi sciolti.

Tana de Zulueta, membro di quella salottiera giuria che assegna premi per la pace, chiarisce l’ovvio: i media internazionali fanno un lavoro insufficiente nel raccontare cosa succede a Gaza. Ecco, un’altra perla: “ci vuole una risposta decisa da parte dell’opinione pubblica. Non dobbiamo rimanere immobili, è il momento di agire”. Chissà se, nel frattempo, l’opinione pubblica si stia aggiornando sui prossimi passi o se aspetterà il prossimo telegramma dall’inferno.

Ah, certo, perché non finisce qui: a chiudere il sipario sulla conferenza, l’organizzazione Archivio Disarmo lancia una raccolta fondi per supportare concretamente Fatena Moahanna e Alhassan Selmi, oltre alle loro famiglie, intrappolate in condizioni che vanno ben oltre l’immaginabile—per quelli che ancora pensano che la solidarietà si misuri a suon di click e donazioni lampo. Oltre cinquanta giornalisti, armati di Colombe d’oro per la pace, hanno già sposato l’appello. Perché, si sa, il peggior nemico del dolore è il silenzio, ma anche la sottile arte di lasciare tutto nelle mani degli altri.

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