È il 1994, l’Italia si trova nel bel mezzo di una tempesta perfetta. L’atmosfera è densa, carica del rimbombo di Tangentopoli, mentre la politica sta agonizzando in una crisi di identità. Non ci resta che cercare volti nuovi, eroi presentabili che possano salvarci dalla palude della disillusione politica. Ed ecco che sbuca l’“era berlusconiana”, un radicale ribaltone che scuote il sistema e presenta una nuova, scintillante visione dell’azzurra patria. In questo meraviglioso contesto, ci si stupisce più avanti di quanto nessuno abbia previsto l’elezione diretta del sindaco.
Ma chi meglio di un semisconosciuto dirigente in pensione di una banca regionale per cavalcare l’onda? Così, la Lega decide di lanciare il nome di Giancarlo Gentilini, un perfetto sconosciuto ai più ma intriso di un fascino irresistibile. Un personaggio che mai nella vita era stato nei corridoi della politica tradizionale, ma che, in un battito di ciglia, conquista Treviso con un linguaggio diretto e un’assenza totale di fronzoli. E che qualcuno lo chiami “Sceriffo”! Per una volta, un soprannome che si adatta perfettamente al personaggio.
Gentilini, che sfoggia la sua personalità travolgente come un mantello, non tarda a diventare il sindaco di Treviso, trovando rapidamente il modo di parlarti come se fossi un amico di vecchia data. La città diventa “il mio popolo” e, in men che non si dica, Gentilini si trasforma in un fenomeno di massa: un uomo con un linguaggio schietto, talvolta brutale, capace di solleticare le simpatie più profonde della gente, ma anche di scatenare feroci avversità. È adorato dai trevigiani, quelli che rimembrano i bei tempi andati, per cui lui è il paladino della città “di una volta”, mentre nei circoli culturali e politici, specialmente a sinistra, se ne parla con crescente disprezzo. E non dimentichiamoci della perplessità della Chiesa, che osserva l’“eroe” con sguardi pieni di diffidenza.
Ma a Gentilini tutto questo importa poco! Rimane saldo sulla sua poltrona di sindaco per dieci lunghi anni, affiancato da un pro-sindaco, Gian Paolo Gobbo, il quale, tra un piatto di pasta e l’altro, ci tiene a confermare di aver “inventato” Gentilini. “Se ne va un pezzo della mia vita”, riflette oggi Gobbo, con una nostalgia per il buon vecchio tempo. L’ultima volta che si sono visti? Solo un mese e mezzo fa, sembrava “beo come el sol”, secondo il suo testimonial. Gobbo racconta anche di aver proposto a Gentilini un seggio al Senato anni prima, ma l’ex sceriffo ha gentilmente rifiutato. Certo, chi ha bisogno del Senato quando si può essere il sindaco e risolvere tutto con una battuta tagliente?
I detrattori lo bollavano come un «borgomastro», come se fosse il custode delle panchine e della nettezza urbana, eppure questa crociata contro le occupazioni di luoghi «sensibili» diventò uno dei punti focali del suo mandato. Naturalmente, il suo mantra era che «una città bella è una città pulita, ordinata, vissuta dai cittadini, non occupata». Così, Gentilini ispezionava la città ogni giorno, sforzandosi di non prendersi mai una vacanza, scrivendo lettere a mano ai presidenti della Repubblica e ai capi di Stato, persino al Papa, per implorare un po’ di rispetto per la sua adorata Treviso. E quando non poteva evitare di apparire, sfoggiava il cappello da alpino, quasi a voler sottolineare che la sua identità era tanto solida quanto le sue convinzioni. Riuscì anche a stravolgere il traffico cittadino con un piano urbano, rimasto celebre per il suo acronimo: Put. Non ci si può stupire se alcuni pensano che avesse fatto di Treviso un suo personale parco giochi.
«Non sono un razzista, ma voglio ordine». La celebre frase di Gentilini riecheggia come una musichina di sottofondo mentre il potente presidente della Fondazione Cassamarca, Dino De Poli, e il sindaco si scambiavano frecciate in un balletto di diffidenza reciproca. Una lotta tra due visioni di città che, scioccamente, si ostinavano a considerarsi complementari. A dispetto della sua anomalia politica, Gentilini non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno, nemmeno da Umberto Bossi, con cui gli scontri erano all’ordine del giorno. Ma è noto, la Lega è fatta di animi forti e battaglie per l’ordine. Certo, le sue dichiarazioni sugli immigrati furono a dir poco indelicati, finendo con due condanne per istigazione all’odio razziale, ma chi se ne importa? Era tutto in nome della pulizia, giusto?
Nonostante le sue frasi infuocate, i suoi compagni di partito si mettevano in fila per farsi fotografare con lui durante ogni campagna elettorale. Perché, si sa, Gentilini «piaceva alla gente», e lui parlava il loro stesso linguaggio. Negli anni ruggenti della Lega, quando tutto sembrava brillare e prosperare, gli vennero offerte posizioni illustri al Parlamento, ma lui, indomito, rifiutò. Voleva restare a Treviso, preferendo passeggiare per le sue strade piuttosto che fare la star in TV. E quando ci andava, l’Auditel impazziva. Le sue frasi taglienti, una sorta di Shakespeare del palcoscenico politico, conquistavano il pubblico, incollando l’Italia al piccolo schermo. Nel 2013 tentò un ritorno alle urne, ma il suo tempo era passato. Chissà se si sentiva abbandonato dalla Lega, o se semplicemente il suo Status di “Sceriffo” non valeva più quanto un tempo. Nel 2018, a 89 anni, decise di risposarsi; d’altronde, dichiarava di non sapere stare da solo. Maria Assunta, una dolce signora di 72 anni, divenne la sua nuova compagna di vita. Ma, sorpresa delle sorprese: a casa, il severo «Sceriffo» si rivelava un uomo affettuoso, soprattutto con bambini e familiari, un vero mistero per chi lo conosceva.
Con il passare del tempo, questo uomo di retorica da marciapiede iniziò a guardare con disprezzo il panorama politico contemporaneo. «Troppe luci, troppa scena» amava dire, lamentandosi di un’epoca in cui l’apparire era tutto e le parole avevano superato i fatti. A 95 anni, quando gli arrivarono un mare di messaggi, fu dispiaciuto di scoprire che era tutto digitale. Da uomo di contatto diretto, che aveva fatto del contatto con la gente il suo pane quotidiano, trovarsi in un mondo che si comunicava attraverso uno schermo doveva sembrare un pesce fuori dall’acqua. Ah, quanto ci si perde senza le buone vecchie lettere a mano!
Ah, la bellezza della coscienza a posto! Non c’è niente di meglio di un semplice «messaggino» per sentirsi come dei veri paladini della moralità. «Questo è il vangelo secondo Gentilini», ripeteva con quel suo stile che si oscillava tra il drammatico e il ridicolo. Chissà se ora, faccia a faccia con Dio, non abbia davvero l’opportunità di dettare qualche versetto, magari con un altro messaggio direttamente dal cielo!
La vera domanda qui è: quanto può valere una coscienza ripulita da un semplice messaggio? Davvero pensava che bastasse un gesto del genere per lavare via ogni colpa? Il tutto somiglia a un tentativo di ottenere l’indulgenza grazie a un WhatsApp ben piazzato. È come se, dopo aver commesso qualche peccatuccio, si potesse dire: “Ehi, guardate, ho mandato un messaggio! Sono a posto ora!”
In un mondo dove i valori morali sembrano svanire come il fumo, abbracciare la filosofia di Gentilini può sembrare comodo. La verità, però, è che questi atteggiamenti offrono solo una patina superficiale di rettitudine. Un bel messaggino e via, problemi risolti, il cammino verso la salvezza è asfaltato! Che mito!
Già, cosa non si farebbe per una coscienza serena, giusto? Dopotutto, se non possiamo trovare un po’ di pace interiore tramite un chat, cosa rimane? Forse una riflessione più profonda sarebbe necessaria, ma dove mai andrebbe a finire il divertimento di una battuta facile?