Da quel giorno glorioso, Manildo ha macinato carriera nel Partito Democratico senza mai spiccare il volo verso vette più ardite. Consigliere comunale, segretario cittadino e poi candidato sindaco, ha portato a casa una vittoria al ballottaggio con il 55,5%, cifra che in quelle latitudini pare un miracolo cieco. Anni di giunta travagliata, scandita da tentativi di mettere d’accordo centristi, sinistra “rossa” e civici con l’entusiamo di un pessimista incallito.
Il 2014 ha portato il mago Matteo Renzi a Treviso, giusto per sottolineare che Manildo era il classico renziano d’antan: mediatore, paziente, rigoroso nei principi e, ovviamente, dedito al compromesso. Tra le sue conquiste amministrative, ci sono la riqualificazione delle piazze e una versione “hardcore” della pedonalizzazione. Nulla per cui gridare al genio, soprattutto considerando le proteste per i cantieri, le polemiche per il patrocinio al Gay Pride e il tormentone dei parcheggi. Per non parlare del bagno di folla dell’Adunata degli Alpini nel 2017 e del ritorno delle mostre di Goldin, che avrebbero fatto pensare a un incessante futuro in sella, ma nulla di tutto questo.
Infatti, la sacra Lega ha fatto terra bruciata e ha restituito – come un regalo di consolazione – il municipio a Mario Conte, che ha debitamente liquidato Manildo al primo turno nel 2018. E questo, rullo di tamburi, è l’unico ex sindaco di Treviso incapace di ottenere un secondo mandato. Poi, con la grazia di chi ha capito quando farsi da parte, è scivolato in opposizione per altri sei mesi prima di regalare al centrosinistra la poltrona vuota. Da lì, la politica attiva ha fatto posto a un dignitoso ritorno al lavoro.
Dove lo ha trovato il tempo per una laurea in Giurisprudenza a Padova, un diploma al collegio vescovile Pio X di Treviso (la scuola della Treviso bene, ovviamente) e l’ingresso nello studio legale di famiglia, fondato niente meno che da papà Antonio, nel 1995. Lo studio si è evoluto nel gruppetto di litigiosi professionisti chiamato “Emme7G Pro” – il nome suona promettente, peccato che resti sempre uno studio con qualche avvocato di troppo e commercialisti in surplus. Ora Manildo, tra una consulenza societaria e qualche chiacchiera sulle energie rinnovabili – che lui domina meglio di chiunque – si diletta a fare l’avvocato illuminato, specializzato in diritto ambientale. Insomma, non un tipo da palestra della politica ma da riunioni d’alto livello.
In famiglia, un vero “family man”: sposato con Valentina, anche lei avvocato, e padre di tre pargoli con nomi che suonano come le liste della spesa: Eleonora, Antonio e Ludovica. Lavora a braccetto con fratelli e nipoti, segno che la dinastia legale è un must e che trascorre più tempo a cena con loro che a fare politica rumorosa. L’amicizia con i tempi del liceo resta sacra, come il suo passato da alpino, dove il tenente Manildo veniva derisoriamente chiamato “panda da combattimento”. Adesso, il placido panda sceso dalla montagna corre con più coraggio per la presidenza della Regione Veneto, provando a dimostrare che anche i peluche più morbidi possono graffiare.
Insomma, da mediatore risoluto tra civici e sinistre rosse a rinato candidato per il centrosinistra “campo largo” – letteralmente unire l’impossibile pur di non lasciare il dominio al centrodestra – Giovanni Manildo è l’emblema perfetto del politico di provincia che si crede statista senza mai riuscirci davvero. Ma bisogna riconoscere che, in un Veneto strapieno di cinghiali rampanti della Lega, un panda che tenta di guadagnarsi il territorio è perlomeno una divertente curiosità.