Tra il 1870 e il 1871, Parigi non ha vissuto una vacanza di lusso sui campi fioriti dell’Impressionismo, come raccontano i manuali d’arte modernisti. No, la Ville Lumière ha dovuto ingoiare ben altro: prima l’assedio spietato delle truppe prussiane e poi quella che Victor Hugo ha definito “l’anno terribile”, dominato dalla sanguinosa Comune soppressa dall’esercito francese nel fango delle sue stesse strade.
Nel suo libro Le rovine di Parigi, pubblicato da Rizzoli dall’8 luglio, il critico d’arte premio Pulitzer Sebastian Smee ci propone una verità senza filtri sul contesto che ha davvero plasmato l’Impressionismo. Spoiler: niente clic tra ninfee e tramonti impalpabili, ma resistenza, caos urbano e un panorama politico ad alta tensione.
Smee ci guida attraverso le fauci del disastro storico insieme ai grandi protagonisti: Manet, Morisot e Degas, bloccati sotto assedio a Parigi; Renoir e Bazille arruolati e mandati fuori città come soldati; Monet e Pissarro, che hanno avuto la fortuna di scappare giusto in tempo. Non potevano mancare poi personaggi come Victor Hugo, Gambetta, Baudelaire, Nadar e Zola, tutti intrappolati in un vortice di politica, arte e giornalismo nel cuore di un’epoca a pezzi, tra salotti borghesi, barricate insanguinate, palloni aerostatici usati come taxi dell’emergenza e opere d’arte imballate e spedite di corsa fuori dal Louvre.
Al centro di questa tempesta, spicca un amore quasi romantico ma non troppo: quello fra Édouard Manet, repubblicano di ferro e icona dell’avanguardia, e Berthe Morisot, l’unica donna a giocarsi fin dall’inizio la carta da protagonista nel variegato campo impressionista. Loro, invece di far saltare tutto con la violenza, risposero con una rivoluzione molto più silenziosa e raffinata: reinventare la pittura per tracciare una nuova lettura del mondo. L’Impressionismo, infatti, ha scelto di volgere lo sguardo alla luce che sfugge, al presente che scappa, all’instabilità della vita, piuttosto che andare a caccia delle ferite visibili e della distruzione viscerale del tempo in cui viveva. Il colpo di genio? Trasformare la precarietà in arte, facendo della transitorietà del mondo la vera cifra distintiva del movimento.
Ecco, adesso buttiamo lì una domanda: e se, anziché limitarsi a rammendare i cocci dell’Europa, gli stati membri provassero a reinventarla davvero? Sarebbe difficile, ma conoscere la lunga e tortuosa storia dell’idea di Europa unita – fatta di sogni più o meno infranti, tentativi falliti e nuove speranze – non guasterebbe per niente.
Da tempo, quel sogno di un continente compatto e coeso sembra affogare nelle contraddizioni tra nazionalismi, interessi divergenti e incapacità di assumere una posizione sul palcoscenico globale, lasciando l’Europa a vagare come una star confusa e senza copione nel teatro mondiale. Se adesso fosse il momento di guardare davvero avanti, occorrerebbe rileggere questa storia per capire quando e come nacque l’idea di una comunità condivisa e magari provare a farla funzionare una buona volta, con più coraggio e meno illusioni.
Nel saggio L’invenzione di un continente, edito da Mondadori nella collana Le Scie, si snodano con una precisione quasi chirurgica i tentativi – talvolta goffi, altre volte ambiziosi, e sempre deliziosamente contraddittori – di unificare politicamente e culturalmente l’Europa. Si parte dalla Lega di Delo, quel simpatico club ateniese, passando per la gloriosa Grecia classica che tanto amiamo citare ma raramente capire, fino alla stagione aurea dell’impero romano, un modello tanto amato quanto mai realmente replicato. Poi c’è la renovatio imperii di Carlo Magno, che non ha rivoluzionato molto, il progetto universalista di Carlo V, un gigante dalle idee forse un po’ troppo grandi per il suo tempo, arrivando al modello napoleonico e all’unificazione tedesca orchestrata dal geniale ma spietato Bismarck. Una carrellata di speranze, delusioni e contraddizioni linguistiche, religiose e geopolitiche che rendono il sogno di un’Europa coesa un bellissimo miraggio, sempre un po’ fuori portata.
Questo libro non si limita a ripetere a pappagallo ciò che è stato, ma ci prende per mano e ci schiaffeggia il presente con lo sguardo del passato. Ci parla di percorsi iniziati e abbandonati, di ambizioni che sembrano opere incomplete di un artista distratto, di visioni sfumate tanto da sembrare illusioni ottiche nella nebbia del tempo. Insomma, ci mostra che l’Europa, quella vera, è ancora un casting aperto, un progetto da reinventare come una patria di cittadini liberi, e non una noiosa somma di confini e regolamenti sovrapposti. Una specie di “ripassiamo insieme il copione, magari questa volta con un po’ più di fortuna”.
Passando a qualcosa di decisamente più terreno e coccoloso, arriva nelle librerie con Feltrinelli Dog is love. Perché il tuo cane non può fare a meno di amarti di Clive D.L. Wynne, un titolo che è quasi un invito a smettere di considerare i nostri amici a quattro zampe come semplici animali domestici e iniziare a parlare apertamente di “amore”. Perché cosa può esserci di più banale e scontato del fatto che i cani siano innamorati di noi? Quella coda scodinzolante, il naso umido, i mugolii imploranti che tutti noi pazientemente – o forse semplicemente rassegnati – abbiamo imparato a interpretare come dichiarazioni d’affetto. Per anni, gli scienziati, quei temerari del razionalismo, hanno messo in guardia contro l’antropomorfizzazione, ovvero l’abitudine tutta umana di attribuire emozioni umane agli animali. Che noia.
Ma ecco Clive Wynne, che con la sua ricerca all’avanguardia ha deciso di buttare alle ortiche questa prudenza accademica e ha puntato i riflettori sull’amore, non sull’intelligenza o la sottomissione, come base del rapporto cane-uomo. Esaminando tutto, dal muso alla coda passando per cervello, ormoni e persino DNA, Wynne dimostra che l’affetto non è solo un vezzo, ma la vera essenza dei cani come specie. Provate a dirglielo quando vi apostrofano con “Non è un umano, è solo un cane”. Il libro apre la strada a una rivoluzione scientifica che ci costringe a rivedere tutto quello che credevamo di sapere sul comportamento e sui bisogni dei cani, e ci racconta un amore che è molto più profondo di una semplice passeggiata al parco.
Intenso, illuminante e decisamente utile per chiunque abbia avuto la fortuna (o la sventura, per chi ha le allergie) di convivere con un cane, Dog is love ci invita a ripensare l’evoluzione e la psicologia canina, offrendo magari qualche consiglio per essere degni dell’amore incondizionato che loro ci offrono con così poco sforzo.
Per chi invece preferisse immergersi in atmosfere più cupe, arriva con Bompiani Gunner, romanzo dello scozzese Alan Parks. Il protagonista, Joseph Gunner, è un ex poliziotto reduce dal fronte francese con qualche ferita fisica e – credeteci – anche psicologica. Tornato nella devastata Glasgow post-bombardamenti, Gunner viene convinto dal suo vecchio capo, il signor Drummond, a investigare su un cadavere misterioso trovato sotto le macerie. Non un cadavere comune, ma quello di un tedesco misteriosamente sfigurato, che ricorda un gerarca nazista di alto rango. Già qui si respira quel profumo di complotto e intrecci torbidi degni dei migliori thriller.
Il nostro eroe, tra servizi segreti britannici, vecchi amori mai sopiti, acerrimi nemici e nuovi ostacoli, è un po’ una macchina da guerra affaticata: dipendente dalla morfina, ma fedele alla sua anima burbera e inflessibile. Si trova invischiato in un intreccio che coinvolge attori tanto vicini quanto insospettabili, a cominciare dal fratello Victor, che giovane ideale e comunista sognatore, rappresenta un contrasto perfetto alla durezza di Gunner, fino a un enigmatico Rudolph Hess, atteso in Scozia per incontri segreti che potrebbero cambiare le sorti di una guerra quasi finita ma ancora piena di colpi di scena.
Ah, la guerra. Quel dolce momento in cui tutto si illumina di contraddizioni e sfumature di grigio, proprio come un romanzo da cui non puoi distogliere lo sguardo. Prendete ad esempio Gunner, un romanzo che si ispira alla vera e segretissima missione di Hess in Inghilterra, dove un protagonista stanco, ma mai battuto, si aggira tra le luci e le ombre di una città intramontabile: una Glasgow anni Settanta, tanto amata quanto maledetta. Non è la prima volta che Alan Parks ci delizia con questo scenario, visto che ha già dato vita a Harry McCoy, poliziotto protagonista di storie premiate con ben tre riconoscimenti corposi, tra cui il McIlvanney Prize e l’Edgar Award. Insomma, un curriculum che fa invidia a qualsiasi agente segreto da quattro soldi.
Nel frattempo, Fazi ha portato in libreria ‘L’alba della nostra libertà’, firmato da Barbara Cagni, un romanzo che racconta donne vere – e non eroine imbalsamate – che si sono ritrovate nel disastro della Resistenza italiana. Siamo a Milano, 8 settembre 1943: il paese si ferma, o almeno tenta, per ascoltare l’armistizio e la tanto attesa fine della guerra. Anche nella casa di tolleranza di Marilù – dove la parola “giorno di pausa” è un’entità mitologica – le ragazze si raccolgono in un silenzio reverenziale davanti alla radio, entusiaste per una notizia che, spoiler, altro non è che il prologo di un incubo ancora più lungo.
Per Marilù, passata da prostitute a mamma disperata di assicurare un futuro alla figlia Cecilia, la vita decide di sparigliare le carte. Ma grazie a una studentessa di Storia dell’arte – la giovane Venera –, che tra un amore proibito e una presa di coscienza sofferta cerca di cambiare strada, Cecilia viene spedita in campagna. Un luogo sicuro? Beh, dipende da cosa intendete per “sicuro” in quegli anni.
Mentre Marilù fa l’impossibile per tenere a galla le ragazze della casa e supporta i partigiani locali, Venera decide di schierarsi apertamente nella Resistenza. Finalmente, si alza la voce delle donne: basta essere figlie di un ruolo marginale, basta stare a guardare mentre gli altri decidono. A Milano, ridotta a uno scheletro affamato e crivellato di bombe, queste donne – dalle operaie alle studentesse, dai più poveri ai borghesi – trovano un unico obiettivo: tornare libere, davvero libere, non più prigioniere di un destino deciso da un altro.
La narrazione si fa tagliente e precisa nel rendere omaggio a quelle partigiane dimenticate, a chi ha combattuto con le uniche armi che aveva: silenzio, testardaggine e un’irrefrenabile sete di libertà. Come si legge nel libro,
“Ognuna di loro aveva cercato uno spazio per pensare e ragionare con la propria testa. Ma era una gran fatica, una battaglia senza moschetto. Come uniche armi avevano, chi più chi meno, il silenzio, la caparbietà e un animo assetato di libertà”.
Nel frattempo, non poteva mancare Laterza con il suo contributo storico: ‘Il grande Nilo’ di Lorenzo Braccesi, professore emerito di Storia greca in tre università italiane, ci guida lungo il fiume più famoso d’Egitto con il piglio di chi non si accontenta di miti da cartolina. Il Nilo, infatti, non è solo acqua che scorre. È un enigma antico come il mondo, un sopravvissuto tra deserti implacabili, fonte immensa di vita e fertilità per un paesaggio spesso ostile.
Con la caduta del faraonico splendore, è iniziata la caccia alle fonti di questo fiume croce e delizia per ogni conquistatore che si è avvicinato: prima i Persiani, poi i Macedoni, i Romani, e perfino i Palmireni (sì, esistevano anche loro), hanno giocato a “chi arriva più lontano” nella Nubia desertica e nelle oasi dell’alto Nilo. Nomi illustri come Cambise, Alessandro Magno, Tolomeo Filadelfo, Cesare, Augusto, Germanico e perfino Nerone hanno lasciato il segno – o almeno ci hanno provato – in queste spedizioni tanto affascinanti quanto disperate.
E poi ci sono quelle motivazioni così innocenti da far venire il latte alle ginocchia: il controllo di rotte carovaniere dorate, la conquista di giacimenti di oro e pietre preziose. Insomma, mentre il popolo si chiedeva quando avrebbe smesso di soffrire, i soliti conquistatori si facevano le loro scorribande con la famosa passione per il bottino. Un teatro antico, che ha ritrovato nuova vita solo secoli dopo, con la spedizione di Napoleone e, ovviamente, il famoso Canale di Suez, perché quando migliora il trasporto merci, tutti ci si interessano.
In sintesi, se pensavate che la storia fosse roba da polverose enciclopedie, sappiate che è un intricato gioco di luci, ombre, missioni segrete, donne incrollabili e fiumi mitici, tutto condito da quel pizzico di furbizia che solo l’uomo sa regalare alla sua folle epopea.
Ah, la gloriosa voglia di raggiungere mete mai toccate prima in una spedizione fluviale nel Meridione dell’ecumene: perché mai accontentarsi di esplorare l’ovvio quando si può osare l’impossibile?
Sul mercato dal 15 luglio, arriva ‘Central Park’ di Guillaume Musso. Vi trovate a New York, nel famosissimo Central Park. Alice, una poliziotta parigina, si sveglia comodamente seduta su una panchina, incatenata a uno sconosciuto. Gabriel, musicista jazz di Boston, con la stessa espressione perplessa, si ritrova al suo fianco senza la minima idea di come sia finito lì. Lei ricorda un’uscita con le amiche sugli scintillanti Champs-Élysées di Parigi, lui invece afferma di aver suonato in un locale a Dublino. Niente cellulare, niente documenti, solo la piccola chicca di una pistola insanguinata nella giacca di Alice, e la confortevole distanza di 8.000 chilometri dal loro luogo d’origine. Da qui parte una frenetica corsa contro il tempo tra verità ben nascoste, segreti dimenticati e una rete di inganni che spingerà i nostri eroi molto più in là di quanto avessero mai osato immaginare. Ovviamente, Musso ci guida in questo labirinto di suspense e sentimenti, lasciandoci con il fiato sospeso fino all’ultima pagina. Un thriller psicologico pieno di colpi di scena, perché nessuno, ma proprio nessuno, può fidarsi di ciò che sembra e ogni indizio può essere la chiave del mistero.
Con ogni romanzo, Musso ha costruito un legame quasi mistico con i suoi lettori. Nato ad Antibes nel 1974, dopo gli studi ha abbandonato persino la carriera da professore di Economia, per non mollare mai la penna. I suoi libri, tradotti in ben 40 lingue e più volte adattati al cinema (perché, naturalmente, Hollywood adora il noir francese), lo hanno consacrato come una vera star del thriller internazionale.
E ora, un salto nell’incredibile: ‘Polo Nord. Storia di un’ossessione’, il racconto epico di un luogo che più alieno non si può, dove il sole resta alto sei mesi e poi sparisce dietro una distesa infinita di ghiaccio per altri sei. Firmato dall’esploratore, alpinista e scrittore norvegese Erling Kagge, il libro arriverà sugli scaffali di Einaudi dal 15 luglio.
Pochissimi posti sulla Terra vanno così tanto di moda fra gli amanti dell’inquietudine e dell’avventura quanto il Polo Nord. Da Erodoto in poi, viaggiatori, cartografi, scienziati hanno puntato l’indice fatidico su questo punto estremo del globo terrestre. Solo alla fine del diciannovesimo secolo, con spedizioni eroiche guidate da Fridtjof Nansen e Robert Peary, si sono cominciati a svelare i grandi misteri. E, sorpresa delle sorprese, Kagge ci è addirittura arrivato a piedi, nella primavera del 1990. Nel suo libro, ricostruisce le epopee ghiacciate dell’esplorazione e dipinge con fastidiosa precisione la magia del silenzio, il bagliore incessante e l’incanto mistico di questo luogo tanto leggendario quanto fragile.
‘Polo Nord. Storia di un’ossessione’ è un’affascinante celebrazione di quella manciata di visionari che hanno rincorso un sogno smisurato e di un universo magico che, ahimè, sta cambiando forse per sempre. Ma almeno restano i libri, no?
Passando dalla natura incontaminata ai prati erbosi dei campi da calcio, ecco la passione sportiva più nazionale che ci sia: la nazionale azzurra. A raccontarla ci pensa il giornalista e scrittore Marino Bartoletti con ‘La storia del calcio azzurro in 50 ritratti’, disponibile da metà luglio grazie a Gallucci editore.
Il nostro amatissimo Bartoletti, con la sua capacità senza pari di trasformare passioni estreme in parole affilate, ci propone i 50 protagonisti che hanno segnato la storia del calcio italiano e mondiale. Un tuffo nostalgico e tattico che va dagli albori pionieristici di inizio Novecento fino alle quattro gioie colossali di vittoria della Coppa del Mondo. E per non farsi mancare niente, una cascata di illustrazioni ispirate di Mauro Mazzara arricchisce questa epopea sportiva italiana, perché se si deve celebrare, si fa con stile.