Se i dazi imposti dall’amministrazione Trump rimanessero com’è ora, l’Italia si ritroverebbe a fare i conti con un buco di circa 3,5 miliardi di euro in esportazioni mancate. Ma attenzione: se questi balzassero fino al 20%, allora il conto salirebbe la scala fino a raggiungere una cifra da capogiro di ben 12 miliardi di euro, sempre secondo sofisticate stime della Cgia di Mestre basate sui dati dell’Ocse. E non è finita qui, perché se il protezionismo trumpiano facesse crollare il dollaro o scatenasse contromisure spaziali, potremmo assistere a un effetto domino che abbassa la domanda globale e fa piangere i mercati finanziari.
Gli Stati Uniti sono il secondo mercato più ghiotto per le esportazioni italiane, con un valore che nel 2024 ha sfiorato i 64,7 miliardi di euro, pari a circa il 9% dell’export nazionale. Nel paniere degli italiani preferito da oltreoceano troviamo in gran spolvero prodotti chimici e farmaceutici, auto, navi e macchinari vari. Questi settori rappresentano oltre il 40% del totale delle vendite made in Italy negli USA. Si contano poco meno di 44mila operatori commerciali italiani attivi negli States, numero che cresce se aggiungiamo tutte le aziende dell’indotto invisibili alle statistiche ufficiali.
I dazi che mordono soprattutto al Sud
La mazzata più dura potrebbe abbattersi sulle esportazioni del Mezzogiorno. A differenza del resto d’Italia, le regioni del Sud si distinguono non per la varietà, ma per una torta export piuttosto monotona. Se oltre ad acciaio, alluminio, auto e componenti, gli USA (e chissà poi chi imita) alzano la barriera su altri prodotti, le conseguenze negative si scaricherebbero in modo pesante proprio sui territori che contano su pochi settori trainanti.
Al primo posto nella classifica delle “regione più a rischio” troviamo la Sardegna: con un indice di diversificazione del 95,6% – il peggiore d’Italia – è quasi tutta appesa al monocorde export di prodotti legati alla raffinazione del petrolio. Seguono Molise con un indice dell’86,9%, che si affida a chimici, gomma, auto e prodotti da forno, e la Sicilia, dove l’export frena poco dalla raffinazione petrolifera (85%). Degna di nota è la Puglia, che con un indice del 49,8% dimostra di sapersi difendere meglio, piazzandosi sul podio nazionale come regina della “varietà” e potenzialmente meno vulnerabile agli aggiustamenti tariffari.
Il Nord tra i fortunati (o i più forti)
Al netto della Puglia, le aree più tranquille quando si parla di eventuali stangate doganali sono tutte al Nord Italia. La Lombardia la fa da padrona con un indice di diversificazione del 43%, seguita a ruota dal Veneto (46,8%), Trentino Alto Adige (51,1%), Emilia Romagna (53,9%) e Piemonte (54,8%). La Città Metropolitana di Milano è la regina del export made in Italy verso gli Stati Uniti: nel 2024 ha messo in tasca ben 6,35 miliardi di euro di vendite, seguita a pochi passi da Firenze con 6,17 miliardi, Modena con 3,1, Bologna con 2,6 e Torino con 2,5 miliardi. Queste cinque superstar esportatrici coprono quasi un terzo dell’export nazionale complessivo.