Italia rimanda lo stop al diesel Euro 5: aria tossica e verdetti UE, ma chi se ne frega?

Italia rimanda lo stop al diesel Euro 5: aria tossica e verdetti UE, ma chi se ne frega?
Bloccare le auto Euro 5? Si rimanda ancora mentre l’Italia paga un prezzo ambientale e sanitario da record

Nonostante l’aria che respiriamo somigli sempre più a un cocktail letale di polveri sottili e gas tossici, il governo italiano – con il grande burattinaio Matteo Salvini in testa – ha deciso di tirare fuori dal cilindro l’ennesima astuzia degna di un prestigiatore: posticipare di un anno il blocco delle auto Euro 5. Una mossa che sa tanto di prendere tempo mentre la qualità dell’aria continua a peggiorare senza pietà né vergogna.

Perché, sia chiaro, non si tratta di proteggere i poveri automobilisti dal dover cambiare macchina o dalla crisi economica, ma di una scelta politica ben precisa: un assist prezioso per tenere in vita quei veicoli che sembrano usciti da un museo dell’inquinamento, spesso vecchi anche più di quindici anni e veri e propri obbrobri ambientali. Intanto, il costo di questa pantomima ha un nome e un cognome: inquinamento atmosferico che, a detta degli esperti, si prepara a divorare ben il 6% del PIL nazionale tra il 2024 e il 2030, cifra che dovrebbe far sobbalzare chiunque con un briciolo di buon senso.

Non è proprio un dettaglio trascurabile, considerando che l’Italia si porta già sulle spalle tre condanne pesantissime dalla Corte di Giustizia Europea per il sistematico superamento dei limiti di inquinanti come il famigerato biossido di azoto, soprattutto proveniente dai diesel. Ma, eh, chi siamo noi per fare gli “ambientalisti isterici”, soprattutto se a menare le danze è lo stesso ministero che dovrebbe tutelare proprio l’ambiente?

Federico Spadini, dalla campagna clima di Greenpeace Italia, non usa giri di parole nel delineare il quadro: “È l’ennesimo colpo basso del governo, quanto meno del ministro Salvini, per affossare il Green Deal che già arrancava paurosamente, soprattutto con una nuova Commissione europea che sembra più interessata a smantellare che a costruire.” Tradotto in cristiano: un tradimento dell’ambizione verde europea, un progresso sabotato per proteggere interessi che non guardano certo al futuro.

Nel frattempo, una ricerca europea fresca di stampa mostra che puntare tutto sulle auto a emissioni zero entro il 2035 non è fantasia da sognatori, ma un’occasione d’oro per rilanciare un settore industriale chiave. Un settore che, se sostenuto, potrebbe tornare ai fasti di produzione post-crisi del 2008, guadagnare l’11% in termini di valore economico e salvaguardare un milione di posti di lavoro. Ma, naturalmente, l’Italia sembra preferire un altro percorso, quello del rifiuto e della lentezza.

Esther Marchetti, responsabile Clean Transport Advocacy di Transport & Environment Italia, sintetizza con sagace realismo: “La competizione globale per la leadership nelle auto elettriche e nelle infrastrutture di ricarica è una corsa senza quartiere. L’Europa ha tutte le carte in regola per vincere, a patto che chi decide ha il coraggio di fare le scelte giuste. Ma qui, in Italia, sembra che il cavallo sia più interessato a restare nel fango.”

Intanto, sul fronte delle reazioni, le associazioni ambientaliste non perdono occasione per evidenziare l’assurdità della situazione. Dopo lo scandalo mondiale Dieselgate, un vero e proprio colpo basso all’intelligenza pubblica perpetrato dalle industrie automotive, che hanno imbrogliato i test di emissione, qualcuno avrebbe pensato a rigare dritto.

Invece no. Nel nostro Paese si preferisce sfidare la Corte di Giustizia Europea e sottovalutare un allarme sanitario che non può più essere ignorato: oltre 50mila morti premature ogni anno causate dall’inquinamento atmosferico, con la Pianura Padana che si laurea campionessa europea di veleno nell’aria. Un primato tristissimo che, evidentemente, non scalfisce le priorità di chi guida la politica ambientale nazionale.

Federico Spadini di Greenpeace ci ricorda gentilmente che il governo italiano ha sempre remato contro l’idea di mettere fine ai motori endotermici entro il 2035. Ora, con la scusa di un vento politico europeo “cambiato”, si è lanciato in una solenne marcia indietro, scegliendo il rinvio. Una “scelta sbagliata”, insiste Spadini, soprattutto per le regioni della Pianura Padana, quelle gioie del Belpaese già soffocate dall’inquinamento atmosferico. Come ciliegina sulla torta, questa mossa rischia di aprire la strada ad altri governi europei che, sul tema, sembrano improvvisamente colpiti da improvvisa amnesia, mettendo così a rischio il cammino fatto finora verso un futuro meno inquinante.

Nel frattempo, mentre l’Italia si diverte a giocare a nascondino con il futuro, un brillante studio pubblicato da Transport & Environment dimostra che mantenere obiettivi ambiziosi potrebbe addirittura salvare il comparto automobilistico europeo dal baratro. Secondo lo studio, passando alle auto a zero emissioni entro il 2035, con politiche industriali mirate — tipo costringere le flotte aziendali a diventare elettriche e supportare la produzione interna di batterie e veicoli — si potrebbe tornare a produrre 16,8 milioni di auto all’anno, il massimo post-crisi del 2008. E come bonus, il PIL europeo legato all’auto crescerebbe dell’11% rispetto a oggi. Insomma, il modello “Future is electric” sembra proprio avere più senso economico di quanto il governo italiano voglia ammettere.

Passiamo alla parte più divertente: i posti di lavoro. Lo studio fa notare che, quel che si perde con l’addio ai motori a combustione interna, si recupera — e come — grazie alla nascita di centinaia di migliaia di nuovi impieghi nell’universo magico dell’auto elettrica. Per citare qualche numero da capogiro: 100 mila posti nel settore batterie entro il 2030 e 120 mila nel settore ricarica entro il 2035. A questo punto, c’è da chiedersi chi abbia bisogno di nostalgici dei motori tradizionali, quando l’Europa potrebbe arrivare a produrre 900 GWh di batterie all’anno — contro gli attuali modesti 187 GWh — se rispettasse il suo impegno e fornisse un po’ di supporto alle sue industrie. Da non dimenticare che il valore della produzione nell’ambito della ricarica potrebbe quasi quintuplicare, raggiungendo ben 79 miliardi di euro entro il 2035. Pare un piano molto più sensato di qualche esitazione politica nostrana.

Ora, per chi ama il brivido, immaginiamo cosa succederebbe se si mollasse la presa sull’obiettivo zero emissioni. A detta dello studio, che evidentemente non ha il senso dell’umorismo, si perderebbe qualcosa come 90 miliardi di euro di contributo al PIL europeo entro il 2035. Per non parlare del milione di posti di lavoro che evaporerebbe nella filiera. A ulteriore delirio, fino a due terzi degli investimenti previsti per le batterie andrebbero letteralmente in fumo, e il settore della ricarica vedrebbe volatilizzarsi 120 miliardi di euro di potenziali entrate nei prossimi dieci anni. Una pacchia insomma per chi sogna di tornare indietro agli anni ‘90.

L’Italia, l’ultima della fila negli investimenti sull’elettrico

Nel quadro generale, ci si aspetterebbe che un paese europeo si lanci con entusiasmo negli investimenti per l’elettrico, giusto? Beh, a sorpresa — o forse no — troviamo che l’Italia, con tutta la sua vocazione automobilistica, è il fanalino di coda. Tra i principali produttori europei di automobili, il nostro paese registra investimenti ridicoli nella produzione di veicoli elettrici, batterie e componenti: appena 570 milioni di euro, una cifra che fa sorridere di fronte ai 28 miliardi pianificati dalla Spagna. Il che ci dice tutto sulla “strategia” italiana per la transizione: praticamente inesistente, o se preferite, una fantasia da bar.

E per aggiungere sapore a questa triste rappresentazione, anche il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin ha deciso di fare un passo indietro riguardo al tema, mettendo il sigillo su una posizione che sfiora il ridicolo. Insomma, se la politica italiana punta così tanto sul futuro, deve essere chiaramente un futuro molto lento, con una marcia indietro più lunga di un film epico.

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