Mettetevi comodi, perché Vincenzo De Luca si è palesato nella sua versione più autentica da combattente e governatore arrogante, direttamente dal palco della festa de l’Unità di Rivoli, in Piemonte. Qui, tra una bestemmia velata e un balletto di ipocrisie, il presidente della Campania ha sapientemente navigato tra i veti del suo stesso partito e le bordate senza peli sulla lingua contro i dirigenti del PD, aprendo scenari da fantapolitica che nessuno aveva osato nemmeno sussurrare ad alta voce: l’alleanza larga con quell’ammasso variopinto di 5 Stelle.
Ecco la perla di saggezza: «Io credo in un’alleanza larga, più ampia possibile, se vogliamo governare l’Italia. Non c’è nessun veto, nessuna barricata nei confronti dei 5 Stelle, anche perché si sono evoluti: Giuseppe Conte ha avuto il merito di trasformarli in un partito normale». Tradotto: oltrepassiamo le nostre smisurate idiosincrasie e facciamo finta di credere che siano diventati una forza credibile – ma sembrerebbe solo finché non toccherà a loro governare davvero. Ovviamente, c’è sempre un ma, o per meglio dire, un veto a sorpresa: niente passaggio di consegne alla presidenza della Campania per Roberto Fico. “Non vedo perché dovremmo consegnare la Regione a chi ha passato 10 anni a brontolare dall’opposizione”, spiega il nostro saggio intellettuale.
Ma tranquilli, che il futuro è già scritto sul copione di Napolitano e De Mita. De Luca si auto-candida a immortale della politica regionale: «Sarò ancora in prima linea, farò ancora il presidente». Quindi, quelli che speravano in un passo indietro possono mettersi l’anima in pace.
Non pago, rilancia l’idea di un po’ di democrazia partecipata tra i suoi: «Facciamo le primarie di coalizione – ha risposto alle domande del direttore de La Stampa Andrea Malaguti, davanti a oltre 400 spettatori – e decidano i cittadini». Ah, finalmente una ventata di aria fresca e partecipazione diretta, peccato che sia arrivata solo dopo una carriera politica che somiglia più a una monarchia assoluta che a una democrazia.
Non mancano le bordate verso i fantasmagorici “leader nazionali” del PD, quelli definiti sprezzantemente come «anime morte». La critica più fervente? La presunta ostilità del partito verso il suo piglio totalitario e, soprattutto, verso il suo terzo mandato. «Il rifiuto del Pd è chiaramente una questione personale nei miei confronti. In Liguria abbiamo candidato Andrea Orlando, scelta che condivido, con cinque mandati in Parlamento alle spalle e tre ministeri. Il limite di mandati vale solo per i presidenti di Regione? Questo è un paradosso da cambiare, in un senso o nell’altro. Il fatto di non avere padroni nel Pd non è molto digerita».
In altre parole, è tutto uno squallido gioco di potere in cui le regole si applicano solo quando conviene e la democrazia interna si piega al culto della personalità di chi si ostina a non mollare la poltrona. Quando dici «governo» e «democrazia di partito», non puoi non pensare a questa brillante sceneggiata, che la dice lunga su quali squallide dinamiche muovono le magnifiche sorti della politica italiana.
Ecco a voi il campione della sincerità politica: chi, pur avendo la bocca cucita sull’ultima (e unica, mica a caso) telefonata con la segretaria dem Elly Schlein, si lancia comunque in sentenze da maestro della verità. Già dal suo tono emerge uno spirito davvero democratico: «Bisogna essere tolleranti con i giovani del partito», ma attenzione, eh, perché “tollerare” non significa lasciarli liberi di fare, no no, bisogna “richiamarli a un processo di formazione”. Tradotto: ci vuole la bacchetta magica per insegnare loro come non scadere nell’ilarità.
E poi arriva il ritratto da incubo dei “dirigenti nazionali” – mica gente qualunque, ma “presunzione e supponenza” tali da provocare orticaria solo a guardarli. Perfetto quadro, degno di un romanzo gotico della politica italiana. Come ciliegina sulla torta, questi giovani dirigenti sanno parlare come se avessero fatto “lo sbarco in Normandia”. Eh sì, mica pizza e fichi, qui siamo di fronte a generali improvvisati della guerra politica!
Ma non finisce qui: la vera perla è il giudizio spietato sulla destra di governo. Dimenticate ogni logica, ogni margine di speranza. I neofascisti sono, secondo lui, i custodi da non sfiorare né con un fiore né con un voto: «Non è immaginabile mettere nelle mani di questa destra il destino dell’Italia e del mondo». E, attenzione, il mondo, mica solo il Belpaese! Le loro proposte? Quelle sì che valgono: sono “frutto di demagogia e chiacchiere al vento”. Per non farci mancare nulla, se facessero un esame di competenza ai ministri, verrebbe bocciato tutto l’albo.
Ora, come se non bastasse la dose di sarcasmo servita senza un briciolo di pietà, il presidente della Campania concede l’encomio soltanto a due mirabolanti progetti: il famigerato Piano Mattei e il ponte sullo Stretto di Messina. Il primo, dicono, è “benché vuoto dei contenuti” – ovvero, grande show ma nessuna sostanza. Il ponte, invece, è da approvare senza se e senza ma. Anzi, persino Salvini ogni tanto azzecca una cosa buona, applausi. Peccato solo che costruire un ponte implichi pure qualche dettaglio secondario tipo… i servizi. Ma non vi preoccupate, sono dettagli da nulla per chi giudica su grandi temi e lascia ai comuni mortali il compito di pagare il conto.


