Al Ministero della Cultura, giusto un anno fa, era tutto un tripudio di passioni degne di una telenovela sudamericana tra il ministro dell’epoca Gennaro Sangiuliano — che per i gossip si era trasformato in “Genny Delon” prima di diventare un ottimo corrispondente Rai a Parigi — e una biondona di Pompei che lo aveva fatto girare la testa con promesse da film di serie B e ricatti di quelli che ti graffiano l’anima e pure la calvizie. Una vicenda tristemente umana, poetica nelle sue fragilità maschili, eppure talmente lontana da quel circus che si è trasformato oggi il palazzo di Via del Collegio Romano.
Oggi il protagonista è il ministro Alessandro Giuli, vestito da dandy (o almeno ci tiene molto a dirlo), che ormai nemmeno si degna di scambiare due parole con la sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni. Tra di loro c’è un festival di polemiche psichedeliche e ripicche così epiche che vien da pensare che stiano tentando la titanica impresa di rimpiazzare la storica egemonia culturale di sinistra con un luna park situazionista targato destra.
Nel frattempo da Via Solferino sgorga la brillante idea: facciamo una pagina, raccontiamo tutto. Come fai? Come si può mettere ordine in questo schizofrenico circo? Si va a spizzichi e bocconi, aggrappandosi agli appunti mentali, perché gli occhi ancora vomitano immagini indelebili.
C’è lui, Giuli, che entra nel ministero tripudiando con panciotto e cravattino (per essere definiti “dandy” ci tiene forse più lui che gli altri), sfoggiando la sua cultura raccolta da ex camerata di Meridiano Zero, con un tatuaggio discutibile sul petto – ma non, attenzione, “un’aquila fascista” come qualcuno ha azzardato – e la laurea in filosofia presa di corsa a gennaio. Ma mica finisce qui, il nostro ministro è anche flautista e studioso di riti religiosi: quando gli chiedono se mangia fegato crudo risponde che quella è roba salafita, peraltro riservata agli infedeli squartati. Insomma, roba raffinata.
Alle presentazioni ufficiali tira fuori perle filosofiche come: «Siamo figli del terremoto, ma anche dell’acqua, siamo aborigeni perché aberrigeni…» Una supercazzola come si deve, brillante e colta, con un vago alone di paraculaggine che rende difficile capire se stiamo di fronte a un mirabile intellettuale o a un presuntuoso elitario con l’ego gonfiato.
Nel frattempo, per giustificare la sua premiata dote di maestro delle parole, si è messo a scrivere un libro per teorizzare un nuovo gramscismo che, immagino, neanche Antonio Gramsci riconoscerebbe.
Ah, il caro compagno Elio Germano, mai così abile da non farsi ingannare dalle sirene di destra, mentre altri sembrano inchinarsi al potere con una grazia disarmante.
Ci troviamo al Quirinale, durante quella sontuosa cerimonia che anticipa la consegna dei David di Donatello, e il presidente Sergio Mattarella fa da spettatore a questo piccolo teatro di passioni cinematografiche. Germano, ruvido e senza peli sulla lingua, attacca frontalmente con la sua verità scomoda:
«Meno male che c’era proprio lui, Mattarella. Perché sentire Giuli dire che va tutto bene nel cinema, beh, è stato davvero difficile.»
Immaginate la miccia accesa, esplosione di polemiche: Giuli non si limita a rispondere, ma va all’attacco anche contro la brillante Geppi Cucciari, definendo i suoi interventi “l’unico esempio di discorsi che migliorano persino se ascoltati al contrario”. Sublime ironia. Ne scaturisce una lettera-appello, piena di firme illustri, da Sorrentino a Moretti, da Zingaretti alla stessa Cortellesi, il cui succo è cristallino: il cinema è alla canna del gas, oltre 160mila lavoratori sono allo stremo e il governo si dimostra colpevolmente in ritardo su una riforma cruciale come il “tax credit”.
Ora, Giuli, con la buona volontà di chi crede ancora nel dialogo, decide di aprire un confronto con il cosiddetto “mondo di sinistroidi” (l’espressione è tutta un programma). Ma, come se non bastasse, apre Libero e trova una lunga intervista della sua sottosegretaria con delega al Cinema, la temibilissima leghista Borgonzoni. La quale, manco a dirlo, lo accusa direttamente dei ritardi sui fondi, arrivando addirittura a suggerire che gli si tolga il potere di firma. Ovviamente, Giuli esplode: otto anni e tre governi sulle sue spalle e ricevere simili colpe? Ingiusto al massimo grado.
Ma ecco la chicca: la sottosegretaria gode pure di una simpatia diffusa tra i produttori. Un dettaglio che Giuli non può certo arruolare dalla sua parte. Così, decide di escluderla dall’incontro coi rappresentanti di categoria – tra cui spiccano nomi come Claudio Santamaria e Beppe Fiorello. Ne nasce un parapiglia di quelli che solo la politica italiana sa regalare. La questione arriva addirittura a Palazzo Chigi, interviene l’inimitabile Matteo Salvini, la tensione si fa palpabile… e alla fine la Borgonzoni si becca l’onore di presenziare al summit.
Giuli non naviga in un mare di tranquillità. Ogni tanto, infatti, deve fare capolino in Procura per qualche strascico dell’affaire Sangiuliano. Episodi passati di clash con il suo sottosegretario Vittorio Sgarbi sono ormai parte del folklore romano: lui che si muoveva con atteggiamenti da “ministro”, gli uscieri che sussurravano “ministro” con riluttanza, e il povero Gennaro che schiumava nei corridoi. Questa volta, però, siamo nel campo politico puro e duro.
I problemi esplodono anche con il capo di gabinetto Francesco Spano, tra tensioni che rasentano la guerra fredda, fino alla famosa puntata di Report che prometteva di svelare chissà quale complotto. E come se non bastasse, c’è il famigerato incontro con il potente Fazzolari, che si trasforma in puma non appena qualcuno osa sussurrare: «Fazzo, guarda che Giuli fa i capricci». Davvero, un campionario di drammi degni di una sceneggiatura hollywoodiana.
Tra questi fuochi incrociati, Giuli si avventura perfino in gesti che irritano i colleghi, come la conferma di Evelina Christillin alla direzione del museo Egizio di Torino, mossa che fa imbufalire il ministro della Difesa Guido Crosetto, desideroso di essere consultato. Una lotta continua per la sopravvivenza nel teatro politico che più sembra un’arena di gladiatori.
A prendere un po’ d’aria fresca, Giuli fugge a rifugiarsi nel nuovo ufficio di lusso a Palazzo Altemps. Ed è proprio lì che appare l’atto di sfida finale: la retrocessione del teatro La Pergola di Firenze, diretto da Stefano Massini, che — come spiega il compianto Renzi — costituisce un “attacco politico” perché Massini osa non pensarla come lui. Davvero illuminante, le trame del potere sono finite qui.
E come ciliegina sulla torta, ecco spuntare un personaggio losco che propone generose ospitate ben pagate ai giornalisti, suggerendo però di parlare male del ministro, purché non si tocchi la sua amata Borgonzoni. Risultato? Dimissioni irrevocabili di Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà Spa e stretta alleata della sottosegretaria. Una vendetta mascherata o un ordine expresso? Mistero fitto, degno di un noir politico all’italiana.
E tutto questo per cosa? In fin dei conti, Sangiuliano si era limitato a sostenere che Dante fosse di destra e, sorpresa sorpresa, che Times Square fosse a Londra. Davvero il crimine peggiore del secolo…
Che gioia, un altro aggiornamento infinitamente essenziale con meno contenuto di un bicchiere d’acqua nel deserto del Sahara. Proprio quello che stavamo aspettando nel caldissimo luglio del 2025: nulla di concreto, solo una data e un copyright che sembra più un promemoria per qualcuno di prendersi una pausa.
Se speravate in qualche notizia succosa o almeno in un pizzico di informazione, mi dispiace deludervi. Questo testo si limita a farci sapere che qualcuno ha deciso di tenersi stretto proprio tutto, come se l’aria stessa fosse un bene prezioso da riservare esclusivamente al proprio ego digitale.
Benvenuti nell’era dell’informazione spettacolo: un’iscrizione a una newsletter che promette chissà cosa, ma se vi aspettate qualcosa in più state pur tranquilli, che non accadrà. Forse il vero scoop sarebbe stato scoprire cosa si cela dietro a tanto silenzio.
Viviamo tempi in cui anche il vuoto cosmico cerca almeno di mostrarsi con dignità, ma evidentemente qui il nulla si prende tutta la scena, senza mezze misure né vergogna.


