Lavoro in Italia: una ditta su tre si butta sugli stranieri extra-Ue per non chiudere entro il 2026

Lavoro in Italia: una ditta su tre si butta sugli stranieri extra-Ue per non chiudere entro il 2026

Un’impresa su tre sta già cercando o ha già trovato lavoratori stranieri extra-Ue tra il 2021 e il 2026. Il motivo? La carenza patetica di lavoratori italiani, denunciata da ben il 73,5% delle aziende. Non che ci volesse un genio per capirlo.

Ovviamente, nonostante questo dettagliuccio sia sotto gli occhi di tutti, il 68,7% delle imprese ha deciso che investire nella formazione del personale straniero è la soluzione d’oro entro il 2026. E mica tutte: il 54,5% di quelle che non assumono extra-Ue pensa invece di restarsene con le mani in mano. Il campione? Un’interessante mischia di 4.500 aziende manifatturiere e di servizi con addetti tra 5 e 499.

Andrea Prete, presidente di Unioncamere, fa notare con enfasi che “l’Italia comincia ad avvertire gli effetti dell’invecchiamento della popolazione dovuto alle dinamiche demografiche”. Tradotto: i lavoratori immigrati sono ormai gli unici in grado di tappare i buchi delle imprese affamate di manodopera.

E, dulcis in fundo, c’è pure un “tesoretto” che l’Italia sembra ignorare: italiani di seconda o terza generazione sparsi soprattutto in Sud America, giovani con competenze solide e un filo diretto con la nostra lingua e cultura, pronti a trasferirsi. Ma chissà, forse è più comodo girarsi dall’altra parte.

Quali profili cercano le imprese e dove

Ma chi vengono a cercare questi tanto agognati lavoratori extra-Ue? Il 47,1% punta sugli operai specializzati, ovviamente tra il 2021 e il 2026 o già assunti in quel lasso di tempo. Seguono operai generici (32,6%), lavoratori del terziario (13,3%), artigiani (11,1%), tecnici specializzati (9,3%), professionisti altamente qualificati (4,9%) e – tenetevi forte – manager in fuga a solo l’1,1%.

Non sorprendetevi troppo se il Nord Est si candida a regina di questo trend: il 36,5% delle aziende del Triveneto ha già rivolto lo sguardo oltre i confini o lo farà entro il 2026, battendo la media italiana del 31,8%. Il Trentino-Alto Adige guida la gara con un 39,1%, seguito da Veneto (37,6%) e Friuli-Venezia Giulia (36,8%).

Se vi stavate chiedendo quale sia la scusa su cui si basano queste scelte rivoluzionarie, ecco la top di chi ha motivato la ricerca di personale extra-Ue: innanzitutto, la mancanza di lavoratori italiani (73,5%), poi la crisi demografica che assottiglia la giovane leva (12,6%), seguita da presunte competenze tecniche superiori degli stranieri (9,4%) e, dulcis in fundo, il minore costo del lavoro, che compare solo per il 3,0% degli intervistati.

Chi assume di più? La divisione dei ruoli

La risposta non stupisce: più grandi sono le aziende, più sono tecnologiche, più è alta la probabilità di trovare un lavoratore extra-Europeo in organico. Il 37,2% delle imprese industriali si è già messo in moto o si muoverà entro il 2026, mentre tra quelle dei servizi la percentuale scende al 27,4%.

Curiosa anche la divisione tecnologica: nelle aziende manifatturiere che puntano sugli stranieri, il 40,2% appartiene al settore high-tech, mentre nel mondo dei servizi il 36,2% lavora nei settori a bassa tecnologia. E attenzione ai numeri: la metà delle imprese che assumono lavoratori extra-Ue ha tra 50 e 499 dipendenti, mentre le piccole aziende (meno di 50 addetti) si fermano al 27,3%.

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