È scomparso all’età di 99 anni Arnaldo Pomodoro, uno dei giganti intoccabili della scultura italiana, lasciando un vuoto che nessun bronzo o geometria spezzata potrà colmare. La notizia, diffusa ieri da Carlotta Montebello, direttore generale della Fondazione a lui intitolata, è arrivata come una scossa nel mondo dell’arte che perde una delle menti più lucide, visionarie e, diciamolo pure, irriverenti del Novecento e non solo.
Montebello ha sottolineato come con la sua dipartita “il mondo dell’arte perde una voce autorevole e coraggiosa”, lasciando un’eredità che va ben oltre la semplice esposizione di opere. Un’eredità fatta di pensiero critico, di una coerenza quasi fastidiosa nella sua intensità che sfidava gli schemi e spingendo sempre verso il futuro con quella febbrile energia creativa che non conosce mezze misure.
Arnaldo Pomodoro stesso si era sempre preso il lusso di non farsi incatenare alle logiche consolatorie delle fondazioni celebrative. Una filosofia che Montebello riassume così: “Non ho mai creduto all’idea di fondazioni che idolatrano un singolo artista come se fosse un unicum estratto da qualsiasi tessuto culturale. L’artista è parte di un efficiente ingranaggio culturale e il suo contributo non si può esaurire né fossilizzare”. La sua Fondazione, quindi, non è mai stata una camera di conservazione polverosa, bensì un laboratorio vivente, un incubatore di idee rivolto soprattutto ai più giovani, perché come Pomodoro amava dire “il meglio deve ancora venire”.
In effetti, proprio negli oltre trent’anni che hanno forgiato la fondazione, il progetto lanciato da Pomodoro ha continuato – con successo – a mantenere acceso quel faro, creando uno spazio quasi sperimentale dove l’arte, la scultura e il pensiero artistico si mescolano senza remore, coinvolgendo la società e chi la vive. Montebello concludendo ha dichiarato, quasi a raccogliere un’eredità morale, “Mancherai a tutti noi Arnaldo e faremo tesoro dei tuoi insegnamenti“. Un tributo che più che commosso suona come un monito a non lasciarsi avvolgere dall’apatia del presente.
Arnaldo Pomodoro, emblema vivente di quella scultura contemporanea che non accetta di scivolare nella decorazione o nella mera estetica, ha scavato dentro la materia come un esploratore ossessionato. Ogni sua opera racconta un duello silenzioso tra forma e disgregazione, un gioco feroce di superfici lucide che si frantumano, di sfere perfette che si aprono come ferite; un’allegoria dell’essere umano moderno che non si accontenta delle apparenze e cerca sempre dentro le crepe della realtà.
Non è un caso che le sue forme, apparentemente pure e geometriche, nascondano sempre un lato oscuro, inquieto, violento. Come se la vera natura del mondo fosse quella frattura profonda, quella tensione che Pomodoro ha saputo tradurre in bronzo, in metallo, in scultura. Una mappa dell’anima spezzata, certo, ma mai sconfitta. È così che la sua arte rimane una metafora potente del nostro tempo e della condizione umana, un viaggio che continua anche ora che il suo creatore ha lasciato la scena.
Le celebri Sfere di Arnaldo Pomodoro, sparse per il mondo come se fossero messaggi criptici – dal cortile dei Musei Vaticani fino alle Nazioni Unite di New York e al Trinity College di Dublino – sono niente meno che metafore della perfezione incrinata. L’apparenza lucida, scintillante, è solo un invito a farsi ingannare: una sontuosa bugia che cela un universo meccanico, frammentato e tortuoso, lavorato con la precisione di un orologiaio della psiche umana. Ogni crepa non è un difetto, ma una porta. Ogni squarcio una dichiarazione filosofica in bronzo e cemento.
Arnaldo Pomodoro, nato a Morciano di Romagna nel lontano 1926, ha attraversato il tumultuoso XX secolo come un moderno Virgilio, traducendo le inquietudini del nostro tempo in materia concreta. Le sue Sfere trafitte, i Dischi mutilati, le Colonne spezzate non sono sculture ma paradigmi di un pensiero complesso, un’arte che si illude di svelare ciò che si nasconde dietro l’ovvio, scavando nel sacro e nel profondo. Prima di questo fervido viaggio artistico, si diploma geometra e si culla nell’oreficeria e nella scenografia, non proprio le materie più esaltanti per un futuro genio, ma chi siamo noi per giudicare?
Con il fratello Giorgio “Giò” Pomodoro e Giorgio Perfetti, forma il gruppo 3P, un brillante tentativo di rinnovare l’arte orafa in un connubio miracolistico di artigianato e invenzione. Nel 1954 si trasferisce a Milano, capitale economica che fortunatamente diventa anche laboratorio creativo, consacrando la città a luogo di peregrinazioni e sperimentazioni radicali, fino alla sua morte.
Il suo primo passo verso la gloria scultorea consiste in altorilievi ricamati da una scrittura cuneiforme che sembra uscita direttamente da un’università perduta nell’antichità: una “scrittura del tempo” come la amava definire lui, perché niente dice “arte contemporanea” come un tocco di archeologia dimenticata. Dagli anni Sessanta in poi, la sua mano si fa più audace: forme geometriche solide, metalli come bronzo e piombo, materiali che servono più che altro a mascherare una feroce ambizione filosofica. Le sue sfere, cubi e coni in bronzo lucido sembrano perfetti da fuori ma, chissà chi l’avrebbe mai detto, sono storti, disordinati, quasi “umani” dentro, come se la vera essenza fosse nascosta da un imponente involucro patinato.
Questa contraddizione tra apparenza lucida e disordine interno diventa il marchio di fabbrica di Pomodoro, che insiste a chiamare le sue opere “macchine mitologiche”. No, non è ironia: crede davvero di parlarci di fantasmagoriche architetture mentali, organismi viventi e labirinti dell’essere. E noi chi siamo per contraddirlo?
Una scultura che non è solo scultura
Da artista dal carattere indomito, Pomodoro s’è sempre rifiutato di ridurre la scultura a semplice ornamento da parco o da piazza. La sua arte vuol essere “totale”, ambientale, vissuta. Con capolavori come La Colonna del viaggiatore (1962), Grande Radar (1963) e la celeberrima Sfera con Sfera (1966), ci strappa dal banale e ci invita a smarrirci letteralmente dentro le sue creazioni. Perché, a quanto pare, l’arte non deve solo essere vista, deve essere attraversata, esplorata, quasi vissuta fino allo spaesamento esistenziale.
L’apice di questa filosofia lo raggiunge con Ingresso nel labirinto, un’installazione ambientale che omaggia l’epopea di Gilgamesh trasformando la scultura in un’esperienza mistica pungente; un portale metaforico da varcare per non tornare più gli stessi. E se questo non bastasse, nell’opera Carapace (2010), concepita per la famiglia Lunelli a Bevagna, Pomodoro fonde il confine tra architettura e scultura: crea un luogo da abitare, ma non solo fisico, anche estetico, spirituale e culturale. Insomma, facciamo pure il mago dell’arte e dell’abitare, su.
Un patrimonio sparso per il globo (e per i malcapitati spettatori)
La mole dell’opera di Pomodoro è vasta quanto il suo ego artistico: disseminato da Roma a Milano, da Copenaghen a Brisbane, passando per New York e Parigi, fino a Los Angeles e Darmstadt, rintracciare una sua opera equivale a un vero e proprio pellegrinaggio. Tra le testimonianze più iconiche annoveriamo la Colonna del viaggiatore (1962), una rivoluzione nella scultura volumetrica, nata per “Sculture nella città” di Spoleto; il Disco Solare (1991), generosamente donato alla Russia durante la stagione poco romantica del post-sovietico; Papyrus (1992) a Darmstadt, la Lancia di Luce (1995), artigli di metallo e rame a Terni; e il portale bronzeo del Duomo di Cefalù (1998). Neanche a dirlo, sempre con quell’inconfondibile tratto di «perfezione ferita» che lascia gli spettatori più allenati a interrogarsi sul senso della forma e sull’arte di sognare in grande.
Ah, la mitica chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, un capolavoro realizzato in tandem con l’archistar Renzo Piano. Così, giusto per non farsi mancare nulla. Ma andiamo oltre, perché il nostro protagonista non si è certo limitato a edifici sacri: ha disseminato la sua arte ovunque, da progetti futuristici come il cimitero di Urbino del 1973, scavato dentro la collina — peccato che l’opera sia rimasta solo un sogno infranto a causa di “contrasti e problemi locali”. Ovvero, la burocrazia ha vinto ancora. Poi c’è l’incredibile ‘Moto terreno solare’, un lunghissimo murale in cemento firmato per il Simposio di Marsala, insieme alla spettacolare Sala d’Armi per il Museo Poldi Pezzoli di Milano. Non dimentichiamo il monumentale environment ‘Ingresso nel labirinto’, un omaggio all’epopea di Gilgamesh, perché, si sa, niente dice “arte contemporanea” come un eroe mesopotamico incastonato in cemento. Ah, e per non farsi mancare il gusto del dramma, si è anche cimentato in scenografie teatrali da far invidia a qualunque produzione hollywoodiana, strappando pure il Premio Ubu. Davvero un’artista impegnato, eh?
Naturalmente, la sua arte ha varcato le soglie dei musei più blasonati del mondo come se fosse un VIP al party dell’anno. Le sue antologiche? Oh, roba da far girare la testa, da Milano a Parigi, da Firenze a Ferrara, passando per il giapponese Hakone, New York e, perché no, la pittoresca Ischia. Dall’Europa agli Stati Uniti fino all’Australia e il Giappone, la sua capacità di dialogare con gli scenari urbani e naturali sembra degna di un moderno diplomatico dell’arte. E nonostante tutto questo, ha anche trovato un po’ di tempo per educare le giovani menti nelle prestigiose università americane di Stanford, Berkeley e Mills College. Come dire: non si riposa mai, il nostro eroe.
I premi? Oh, una sfilza interminabile: dalla Biennale di San Paolo (1963), passando per quella di Venezia (1964), il lusinghiero Carnegie International Prize (1967), fino al prestigioso Praemium Imperiale per la scultura (1990). Senza dimenticare riconoscimenti di ogni tipo, tra cui l’ambitissima laurea honoris causa in Lettere dal Trinity College di Dublino e in Ingegneria dall’Università di Ancona. Per non parlare del titolo di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana e la Medaglia d’oro ai Benemeriti della Cultura. Insomma, quando si parla di onorificenze, è come se avessero tirato fuori l’intero arsenale per lui.
Come se servisse altro a coronare la sua carriera, nel 1995 ha fondato la Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano. Non solo per conservare la sua opera, che ovviamente non poteva essere lasciata ai posteri senza un santuario degno di questo nome, ma anche per fare luce sulla scultura contemporanea in generale. Un centro che si improvvisa rifugio per giovani artisti speranzosi, curatori e quel pubblico tanto affamato di cultura. Ah, e per non cadere nel provincialismo, ha anche istituito il Centro Tam nel Montefeltro – sì, proprio quella terra malinconica della sua infanzia – dedicato al Trattamento Artistico dei Metalli, perché la nostalgia si esprime meglio attraverso il metallo fuso. Che dire? Un uomo, una missione, un mito incrollabile.