Come perdere il sonno e farsi cinque ore di viaggio per scoprire che in Iran l’attacco miracolosamente mette tutti d’accordo

Come perdere il sonno e farsi cinque ore di viaggio per scoprire che in Iran l’attacco miracolosamente mette tutti d’accordo

Giacomo Longhi, traduttore dal persiano e profondo conoscitore dell’Iran, si è trovato nel bel mezzo del “massimo divertimento” geopolitico mentre si trovava nell’Est di Teheran. Ospite di un amico scrittore, ha avuto il privilegio di vivere in prima persona quella che chiameremo la versione locale di un concerto pirotecnico bellico, giusto per rendere l’idea.

Il nostro eroe culturale ha subito pensato al suo primo lavoro di traduzione – un romanzo apocalittico intitolato Non ti preoccupare di Mahsa Mohebali. Che prevedeva un terremoto devastante a Teheran, ahimè. Nulla di così traumatico quanto un attacco dal cielo, ma un tocco letterario comunque.

Da vero iranista trentaseienne, Longhi frequenta il paese dal 2010 e presta i suoi servigi di traduzione per la raffinata casa editrice Bompiani. La sua esperienza fa un salto nella diplomazia commerciale italiana nel momento d’oro guidato da Federica Mogherini, unica diva europea degli affari esteri, e l’Italia che fingeva un ruolo da protagonista negli accordi nucleari del 2015. Nel 2017, alla fiera del libro di Teheran, l’Italia faceva il suo ingresso da ospite d’onore come una star del rock – e infatti non mancavano nomi come Michela Murgia, Michele Serra, Valerio Massimo Manfredi e Alessandro Barbero.

Giovedì sera, il nostro intrepido traduttore si trovava comodamente seduto tra amici, immergendosi nelle gioie quotidiane di Teheran: attraversare la città per ore in auto, pedalare intorno alla città (dor-dor, per i locali), e tentare di fare conversazione con ragazze attraverso i finestrini. Da vera vita da romanzo – peccato che la storia avesse altre idee per lui.

Quando, giusto prima di andare a dormire, il silenzio fu rotto da un boato così forte da far mettere in allarme qualsiasi turista naïf, Giacomo non poteva non preoccuparsi: “Odi, questi non stanno colpendo palazzi, ragazzi”. Tra un messaggino con un amico alle 3:54 di notte e l’illusione che la guerra fosse ormai realtà, gentilmente preparò lo zaino, scelse un angolo lontano dalle finestre – perché si sa, il vetro è traditore – e, in mancanza di un piano di evacuazione, pensò che l’ambasciata l’avrebbe probabilmente chiamato lei (spoiler: non è successo). Infine, si concesse la piccola coccola di fumarsi una sigaretta, perché nulla dice “situazione caliente” come un capo indiscusso di fumo.

Dopo una notte senza sonno, il mattino seguente non poteva mancare il rituale caffè locale, dove qualche giovane, per sdrammatizzare con la consueta leggerezza iraniana, si dedicava a raccontare barzellette. Perché, in fondo, anche nel mezzo dell’inferno, un po’ di sana comicità è d’obbligo.

Le strade? Deserte, spettrali come se un’apocalisse silenziosa avesse deciso di fare visita. Domenica, uno Snapp—per chi non lo sapesse, il servizio di taxi che ti prende da dove nemmeno il buon senso osa arrivare—ha traghettato il nostro eroe fino a Chalus, cinque ore di auto a nord, e con l’aiuto della collega Farian Sabahi e dell’ambasciatore italiano a Baku, Luca Di Gianfrancesco, lunedì ha varcato il confine azero per atterrare sano e salvo in Italia da ieri. Ovviamente, tutto secondo copione… o quasi.

Il nostro intrepido Longhi ci spiega l’ovvio: i bombardamenti sono percepiti dagli iraniani non come fastidiosi rumori notturni, ma come “veri e propri attacchi terroristici”. Tra uno yawn e l’altro, aggiunge una perla di saggezza sociale:

“Cerco di rimanere amico con tutti, evito le opinioni politiche, però l’Iran è un caleidoscopio di opinioni e ciò che li unisce tutti è un nazionalismo così forte che fa sembrare il calcio una passeggiata in famiglia. Quando arriva una minaccia esterna, tutta quella facciata di dissenso si dissolve in un grande ‘noi’ patriottico.”

Ma aspetta, non è finita. Nel parco giochi delle contraddizioni incontriamo amici “più liberali” che si spingono alle proteste di strada (come certificato, perché si sa, solo chi protesta è davvero “liberale”) ma che, oh sorpresa, nei giorni caldi precedenti vomitavano sui social opinioni “quasi razziste” contro i palestinesi a Gaza. Naturalmente, secondo loro, Israele “faceva bene a difendersi”. Ora, miracolosamente, hanno scoperto la virtù dell’unità nazionale:

“Serve stare uniti, non è accettabile un attacco simile dall’esterno, l’Iran ha il diritto di difendersi.”

E come se non bastasse, ci sono gli amici “più vicini alla Repubblica Islamica” ma con un twist da Hollywood: frequentano quartieri chic dove ragazzi e ragazze vestono “come a Los Angeles”, lavorano per il governo attuale (si sa, il male minore), e hanno il sospetto sacro di essere pronti a morire non tanto per una politica o istituzione specifica, ma per il buon vecchio patriottismo. Perché, alla fine, un Paese è un Paese.

Longhi ci mette in guardia dal cadere nell’ingenuità di pensare che l’Iran sia solo diviso fra pro-regime e anti-regime. Insomma, non è una sitcom con due sole stagioni. Molti hanno avuto guai con il governo e servizi di sicurezza ma stranamente non sognano di scappare via a gambe levate. Semplicemente dicono:

“Questa è casa mia. Dovrebbero smettere gli israeliani di bombardare.”

Un Frammento di Triste Realismo

Niente di nuovo sotto il sole, quindi: nazionalismi impastati a opinioni contraddittorie, variazioni sul tema tra ribellione e fedeltà, tutto condito con una sana dose di ipocrisia. D’altronde, cosa è un Paese internazionale se non un groviglio di contraddizioni? E niente dice “amicizia” meglio di scappare avanti e indietro tra confini con la complicità diplomatica, come spettatori impotenti di una tragedia che sembra non finire mai.

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