Che sorpresa epocale: il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, si fa portavoce dell’allegria e della lungimiranza. In una città dove un quarto dei minorenni è straniero, il primo cittadino, paladino dello ius scholae, ci ricorda che i nostri quartieri fragili sono divisi, tra chi dice sì a qualche diritto e chi invece preferisce tenersi stretto il solito grigiore sociale.
Con un’affluenza al voto del 41,3%, quasi un trionfo rispetto a tante altre città, Torino dimostra una sola cosa: che anche sotto la Mole il referendum è riuscito a portarci l’immancabile spaccatura tra – udite udite – diritti e problemi sociali. Tutto molto nuovo, niente di meno.
Stefano Lo Russo spiega il suo appoggio al “sì” alla cittadinanza con un mantra già sentito ma sempre fresco, ahimè: il Paese è così vecchio che senza immigrati l’economia si bloccherebbe. Ovviamente ce lo dicono i soliti imprenditori, quelli che non si stancano mai di richiedere più flussi regolari. Ecco la verità: allargare la cittadinanza non è altruismo, ma un modo furbo per integrare e far crescere – o almeno provarci – un sistema economico che altrimenti vacillerebbe.
Eppure, sorpresa delle sorprese, un elettore su quattro del Partito Democratico non la pensa affatto come lui. Forse la spinta per ribellarsi nasce da quella sana paura del futuro che si insinua nel ceto medio, tra disoccupati, lavoratori poveri e precari che, guarda un po’, dovrebbero forse ricevere quel famoso “sostegno” da cui tutti parlano ma che nessuno sembra abbia mai visto concretamente.
Il sindaco, da buon riformista alla moda, si allinea alla linea di Elly Schlein, segnando in rosso la parola “unità” come la soluzione suprema. Critiche alla segretaria? Macché, meglio prendersi un minuto per meditare, perché non sia mai che la riflessione porti a qualche dubbio serio. Non ora, almeno.
Ma quali sono questi “temi reali” su cui indulgere nel pensiero positivo? Nulla di esplosivo: sanità, sicurezza sociale e periferie. Tradotto, più soldi (speriamo che arrivino) per sistemare quel che già da un pezzo è caduto in pezzi. Insomma, la solita ricetta di sempre, servita con un pizzico di buonismo e un enorme sorriso istituzionale.
Come risolvere questo intrigante rompicapo? Semplice: se l’Italia desidera davvero affrontare i problemi concreti, deve rimettere al centro dell’agenda politica quei fantasmi chiamati comuni e centri urbani. Perché no? Facciamo partire un nuovo Piano Nazionale per le Città, così, tanto per cambiare rotta da quella solita melina burocratica.
Il vicepresidente dell’ANCI ha recentemente partecipato a un comitato interministeriale per discutere della posizione italiana sui fondosauri europei 2028-2035. Ecco il capolavoro: nella bozza del governo, la parola “città” è stata mysteriosamente cancellata. Come mai? Mistero fitto. Evidentemente, le città sono così insignificanti che si può fare a meno persino di nominarle. Però, udite udite, hanno trovato nel ministro Tommaso Foti un interlocutore “attento e disponibile”. Che consolazione!
Ma c’è un sospetto che aleggia nell’aria: vogliono escludere le città dalla gestione diretta dei fondi europei? Ah, certo, perché dopo che nel PNRR i Comuni hanno dimostrato di essere le magiche amministrazioni pubbliche più efficienti, ora bisogna chiudere il rubinetto. Le città sono disseminate di cantieri ideati e realizzati proprio dalle amministrazioni locali, capaci di trasformare la realtà per il bene dei cittadini. Buttare a mare tutto questo sapere sarebbe un’autentica tragedia.
E quindi, come sindaci italiani, arrivano a chiedere una “Agenda per le città” vera e stabile? Finalmente qualcuno che capisce. Persino un commissario europeo con delega specifica sulle città – niente meno che Raffaele Fitto, ex ministro e attuale vicepresidente – sembra suggerire che forse, dico forse, le città meritano spazio. La strada sembra tracciata, resta da vedere se qualcuno ha voglia di percorrerla o continuerà a fare finta di niente.
E cosa cambierebbe con una gestione diretta dei fondi? Innanzitutto, addio alle interminabili filiere di inutile burocrazia: i Comuni potrebbero agire esattamente dove serve, secondo le priorità di quelle metropoli che conoscono più di chiunque altro. Magari iniziando con emergenze reali come la casa, con nuovi, grandi piani abitativi sociali. Oppure puntando finalmente sulla transizione ecologica e la competitività, cose che richiedono infrastrutture innovative e non solo chiacchiere da salotto.